Gustloff. Tragedia sotto silenzio.

5 Feb 2010

 Baltico meridionale. Poco dopo le 21. La radio ha appena finito di trasmettere il discorso di Adolf Hitler in occasione delle celebrazioni per il 12esimo anniversario della presa del potere da parte dei nazisti. Il vento è gelido, i ponti ghiacciati, l’umidità entra nelle ossa. La temperatura è di circa una decina di gradi sotto zero.

 La Wilhelm Gustloff ha lasciato il porto di Gdynia (Gotenhafen) – non lontano da Danzica – da una manciata d’ore, il 30 gennaio ‘45. A bordo ha 10.582 persone, quasi tutti profughi o feriti. La Germania sta mettendo in atto la maggiore evacuazione navale della storia, con l’obiettivo, poi raggiunto, di portare in salvo due milioni di connazionali, in fuga dalla Prussia orientale. L’avanzata dell’Armata rossa è ormai inarrestabile. Secondo alcune voci, risultate successivamente non vere, sul bastimento è stata caricata anche la famosa Sala d’ambra, dono di Federico Guglielmo I a Pietro il Grande nel 1716.

 Rose Petreus è insieme alla sorella Ursula. Sono originarie di un villaggio, oggi in territorio lituano. “Dove la nave fosse diretta – ricorda la donna – nessuno lo sapeva”. La gente era stivata ovunque. Salire sulla Gustloff, orgoglio della Marina civile del Reich, non era stato facile. La ressa in porto era impressionante, la fila enorme. A tutti i passeggeri era stato distribuito un giubbotto di salvataggio.

 Aleksandr Marinesko è il capitano di un sottomarino sovietico S-13. Ha pessimi rapporti con i suoi superiori. Ha ricevuto l’ordine di controllare le coste dell’attuale Lituania. L’ufficiale sovietico, non si sa perché, si è spinto parecchie decine di chilometri più a sud. All’improvviso dal suo periscopio scorge in lontananza l’ombra di un gigantesco naviglio con alcune luci accese.

 I quattro comandanti tedeschi discutono a lungo sulla rotta da tenere. Sono, però, concordi che la scorta sia insufficiente. La luna dà un tocco di romanticismo ad una notte di paura, mentre tenui fiocchi di neve scendono lentamente dal cielo plumbeo. Viene scelto il canale 58.

 208 metri di lunghezza per svariate migliaia di tonnellate, la Gustloff era stata costruita nel 1937 per essere una ammiraglia, e di superlusso. Ad un certo punto sembrò dovesse addirittura prendere il nome di Adolf Hitler, ma poi il Fuhrer, quasi per scaramanzia, la fece dedicare ad un “martire” del nazismo, ucciso da un ebreo in Svizzera. Dopo il settembre ‘39 la nave assume la funzione di ospedale galleggiante e di mezzo da trasporto truppa nel Baltico.

 I passeggeri si preparano a passare in qualche modo la notte, quando all’improvviso si ode un colpo sordo. Il primo pensiero è di aver urtato una mina o un grosso corpo metallico. Ma non è così. Dopo lunghi minuti di osservazione Marinesko ha sparato 3 siluri. Un quarto con sopra la scritta “per Stalin” è rimasto bloccato nella camera di lancio. “Il secondo colpo fu fortissimo”, rammenta Rose. A bordo scoppia il panico. Dopo poco il terzo siluro colpisce il bersaglio e la Gustloff si inclina su un fianco di 40 gradi. “La gente si mise a correre verso i ponti più alti. Molte persone furono calpestate”, aggiunge Rose. Gli ufficiali lanciano segnali luminosi e gli SOS. Gran parte delle scialuppe non si riescono a calare in mare poiché le carrucole sono ghiacciate.

 “Si udirono parecchi colpi di pistola – scrive nelle sue memorie uno dei dottori di bordo Hans Rittner -. Tanti furono i suicidi. La nave emetteva suoni sinistri. Spaventosi erano gli scricchiolii. Le donne urlavano, i bambini piangevano”. Migliaia di persone sono intrappolate all’interno delle cabine e dei saloni inferiori. I più fortunati si gettano in acqua. I flutti si riempiono in un attimo di disperati con indosso i giubbotti di salvataggio. Alcuni di questi sono troppo grandi per i bambini, molti dei quali galleggiano con le gambe all’insù.

 L’agonia della Gustloff dura quasi 50 minuti. Poi l’ammiraglia, dopo essersi spezzata in tre tronconi, si inabissa, alzando onde altissime. 1239 persone (tra cui Rose e la sorella) vengono salvate dalle navi di soccorso, 9343 sono i morti. E’ la catastrofe marittima più grave della storia, ma anche la meno conosciuta, a differenza dei drammi del Titanic, dell’Andrea Doria o del Lusitania.

 La Germania nazista non ha interesse a divulgare la notizia, gli alleati nemmeno per le ingenti perdite fra i civili. Gli aggressori, dopo tutto, sono le vittime e non i carnefici. Nel 1955 viene prodotto dai tedeschi un film che non riscuote grossi esiti. Il capitano Marinesko finisce in un gulag a conclusione della guerra. Otterrà dei riconoscimenti solo nell’ottobre ’63, tre mesi prima di morire. Gorbaciov gli conferirà postumo il titolo di “eroe dell’Unione Sovietica”.

 Il premio Nobel ’99 per la letteratura, Günter Grass, rompe il silenzio ad inizio secolo col romanzo Il Passo del Gambero. Per lo scrittore originario di Danzica la memoria va recuperata e questo è venuto il momento di farlo. La destra xenofoba e nazista è capace di manipolare il passato solo per supportare la sua ideologia. 

 Con le celebrazioni del ventesimo anniversario del crollo del Muro di Berlino si registra un timido cambiamento nell’approccio dei tedeschi verso la storia recente. Il senso di colpa collettivo per i crimini dei nazisti e l’obbligo di ricordare quei spaventosi delitti sono pian pianino affiancati dalla soddisfazione per i risultati ottenuti nel dopoguerra dalla Germania, una democrazia fondata sui valori costituzionali, che ha saputo creare prosperità e progresso. Una gestione sapiente di argomenti storici così complicati e dolorosi, come quelli in cui i tedeschi sono le vittime, rappresenta una necessità inderogabile davanti alle future generazioni europee.

 Giuseppe D’Amato

 

2 Responses to Gustloff. Tragedia sotto silenzio.

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Willhelm Gunsburg

April 5th, 2010 at 02:51

Sono completamente daccordo con l’articolo. Sono stato insegnante di Tedesco in Italia fino il 1998. Sono vedovo dal 1998 anno in cui andai in pensione e rimasi vedovo, e sono tornato in Germania. Posso raccontarvi l’esperienze di un vecchio (oramai, ma sò adeguarmi ai tempi che corrono) e questo è un grande mezzo di comunicazione, e io lo sfrutterò. Sono nato a Flensburg, nel 1935, nel pieno della follia ideologica nazista. Ricordo bene quei periodi. Ricordo maggiormente la guerra poichè avevà gia 5 anni e i ricordi di allora sono abbastanza nitidi. Ricordo le grandi promessi di Hitler, non mantenute, ricordo mia madre e mio padre piangere nella cucina per la deportazione di loro carissimi amici ebrei, e la frustrazione dell’impotenza, impotenza di tutto, il voler opporsi ma non farlo, come ricordo i miei compagni di classe della I elementare deportati piano piano via. Ricordo tutto molto bene. Bè oggi, ma da molto tempo in Italia e in tutto il mondo, eccetto forse proprio la Germania, ci si pone l’interrogativo su come i tedeschi abbiano potuto commettere, o comunque tacere le orribili malefatte delle SS e del Nazismo verso ebrei ma non solo. Lavorano 40 anni nelle scuole italiane (genovesi) ho avuto modo di capire che il quesito maggiore degli stranieri è: ma voi (tedeschi) non sapevate nulla dei campi di concentramento? Bè ovviamente rispondere è difficile, bisogna capire che dipende anche dal posto in cui vivi, io vivevo nella cittadian di Flensburg nel nord della Germania, in cui l’esistenza di campi di lavoro era generalmente nota ma l’esistenza dei lager o delle camere a gas, delle condizione igienico-sanitarie bè questo non era noto, Hitler e la propagana (Goebbels) ha celato molto bene il tutto per lo meno ci ha distorto la realtà dei fatti, la Germania era isolata, e i mezzi di comunicazione erano labili, pochi e perfettamente manipolati dalla stampa nazista, che di certo non ci raccontava di Auschwitz o di Bergen Belsen. Penso che chi abbia abitato nelle estreme vicinanze dei lager, sapesse, ma anche qui, i lager erano dislocati in zone di campagna e spesso posti in nazioni estere, anche se alcuni si trovavano in Germania, ma comunque per quello che ti posso dire io, nello Schleswig lager non c’è n’erano e dei tanti lager Auschwitz o B.Belsen non si sapeva; certo le deportazioni erano costantemente sotto i nostri occhi e inevitabile che capissimo che qualcosa succedeva, non si può far finta di niente e di certo le deportazioni non passarono inosservata ma visti entrare nei carri gli ebrei, be non si sapeva bene quale fosse la loro destinazione, o comunque non si sapeva ciò a cui sarebbe andati in contro. Ora questo non è un tentativo di discolpare o giustificare la Germania, anzi, è cercare di rispondere con la mia personale esperienze a quesiti che attanagliano chi non ha vissuto quel periodo. Gli anni passavano, e io inizia le elementari (tra il 40-45- pensate voi) nel momento peggiore della storia universale io mi accingevo a compiere la mia infanzia, che non fu cosi tremenda, come poteva essere quella di molte altre persone, di certo però non fù idilliaca, e le tante promesse hitleriana non si intravedevano. Ricordo come se fosse ieri, nel 1943, avevo allora 8 anni, ricordo mia madre che piange per la deportazione di alcuni ebrei del nostro quartiere, tra cui la sua amica di infanzia, con cui aveva passato una vita intera, deportata dai nostri stessi paesani e per colpa nostra; bè ricordo quel momento in modo perfetto. Non posso di certo scordare il “governo di Flensburg” il tentativo (alla fine della guerra – dopo la morte dei potenti del nazismo, hitler per primo) di ricostruire il Terzo Reich, tentativo folle. Bè ricordo l’insediamento di Donitz di Speer, di Himmler, ricordo vagamente alcuni spezzoni, ricordo le grandi macchine arrivare e ricordo il giorno in cui gli alleati irruppero in Flensburg, ricordo gli inglesi camminare velocemente, dandoci dei nazisti, non scorderò mai un soldato che “insultava” la gente per strada, ricordo l’arresto di Himmler, come potevamo scordare quei momenti, di panico, di terrore, di incredulità. Verso la fine della guerra si spargeva la voce di molti campi liberati in cui le condizioni igieniche erano pessime, si iniziava a capire qualcosa, ma ancora molto bisognava fare per poter poi capire ciò che succedeva all’interno di quegli inferni chiamati campi di concentramento. Maggio 1945: ricordo come se fosse ieri il Flensburgerallegemeinsezeitung, in cui c’erano le foto dei campi di concentramento, Il titolo era: Auschwitz, l’inferno sotto i nostri occhi. Già sapevo leggere ma mia madre non mi fece leggere, li ricordo in cucina, era mezzogiorno icrca, increduli davanti alle foto degli alleati delle fosse comuni. Erano scioccati. Io allora non capivo bene, a distanza di anni ho capito quelle loro faccie, quei loro occhi attoniti, increduli. Bè posso dire che quella sua carissima amica stette a Ravensbruck e poi a Bergen Belsen, testimoniò infatti al processo di Belsen a Lunberg. Era circa settembre del 1945, e l’estate stava finendo, il clima è molto diverso dall’italia, arrivavano le prime pioggie e il viale di casa mia, un lunghissimo viale che fino al 1930 era aperto a tutti, porte aperte e grande fratellanza ora erano case chiuse, terrore, panico per le sorti di una ormai distrutta economicamente ma anche e soprattutto direi moralmente Germania, in fondo al viale intravidi una figura magra, non riuscivo a capire chi fosse e tiravo il vestito di mia madre donnona di un 1.87 (ricordo che mi faceva male il collo per guardarla) e mia madre capì che era lei, i suoi occhi si sbarrarono, la pensava morta come quasi tutti i deportati del viale di casa nostra (erano all’incirca 15- tre famiglie se non sbaglio) ma lei era ancora viva, ricordo vagamente la figura magra, sciupata e i vestiti strappati e logorati che indossava, la sua casa era stata distrutta dai tedeschi (da noi in un certo senso quando dico tedeschi) e nulla era in ordine, la ospittamo, ricordo l’abbraccio commovente di mia madre e lei, ora sembra un film, ma è realtà la grand forza di un’ebrea sopravvissuta ai campi di perdonare senza un cenno quella sua amica tedesca (che nulla aveva fatto di male- però sapete allora solo per il fatto di essere tedeschi era comprensibilmente colpevolizzato) stette un grande periodo a casa nostra, il tempo di risistemare le cose, quel natale 45 fu terribile, ma gioioso allo stesso tempo, aveva tre figli della mia età più o meno due gemelli che erano in classe con me e una piccolissima di appena un’anno. Il marito e la piccola non c’è la fecero, si venne a sapere che la piccola morì subito e il marito ad Birkenau. I bambini furono mandati a Ravensbruck e poi a Belsen, Hans uno dei due gemelli morì durante le tristemente note “marcie della morte” Friederich riuscì a salvarsi. Sento la pelle d’oca tuttora a parlarne e a rievocare quella storia. Mia madre è ancora viva, questa signora ormai non più, ma Friederich ancora è vivo, vive non distante da casa mia, lo incontro spesso e giochiamo al bar. Anche lui ha avuto una bella carriera come traduttore. Questa è la mia personale esperienze e di persone a me molto care, spero di aver soddisfatto qualche vostro interrogativo, la colpa e la vergogna ci invaderanno per sempre, solo scusa possiamo chiedere, ma ormai la Germania è cambiata fortunatamente, PERCHE’ SIMILI ATROCITA’ NON AVVENGHINO MAI PIU.. MAI DIMENTICARE … RICORDARE NEI SECOLI DEI SECOLI .. L’umanità (nella sua complessità si è macchiata di terribili atrocità) POSSIAMO SOLO SPERARE NEL PERDONO DIVINO … Un grande saluto al magnifico paese (quanto molto incasinato) paese che si chiama Italia dalla vostra amica Germania.

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Paolo

July 17th, 2010 at 13:21

Una commovente testimonianza di una persona sensibile. Io sono figlio di un testimone dell’epoca, arrivato in Italia nel 1943 dopo precedenti esperienze belliche in Polonia, Belgio, Francia, Unione Sovietica e che non l’ha più voluta lasciare tra l’altro sposando, ancora in prigionia (1947), un’italiana: mia madre. Quello che spiace, a fronte di una complessiva presa di coscienza tedesca, è la sempre maggiore ignoranza, da parte delle nuove generazioni anche italiane, riguardo il “perché” e il “come” si sia potuti giungere a tanto. E temo che a lungo andare la strada che porta a siffatti errori e drammi possa essere, almeno in parte, ripercorsa. Solo la mutua conoscenza e riconoscimento può impedire il ripetersi di simili esperienze. L’atteggiamento verso i cosiddetti “extracomunitari” sarà uno dei nostri banchi di prova.

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