CIS


 Spese folli, elettori abulici, casse dello Stato quasi vuote. Ecco l’Ucraina al voto. Per la prima volta da anni il potere è veramente in palio. Tanti sono i conti da saldare tra i potenti.

  La corsa alle presidenza si gioca sull’immagine dei singoli candidati, poiché la differenziazione ideologica ed etnica è ormai venuta meno. Le principali città del Paese sono invase da giganteschi manifesti con slogan e fotografie ammiccanti. I colpi di estro non mancano.

  “Loro scioperano, Lei lavora”; “loro paralizzano, Lei lavora”. Questa “Lei” non è altro che la carismatica Julija Timoshenko, la combattiva premier, ex dama di ferro della fallimentare rivoluzione arancione. Non serve scrivere il suo nome. Tutti la conoscono, grandi e piccoli. “Lei lavora, Lei vincerà, Lei è l’Ucraina”, recita l’ultimo motto coniato. Evviva la modestia!

 Le risposte degli avversari non sono mancate, anche alcune di pessimo gusto che si tralasciano volentieri. “Per il popolo” è la scelta finale di Viktor Janukovich, suo principale avversario. Il primo slogan – “la vostra opinione è stata ascoltata. Il problema è stato risolto” – seguiva uno stile antiquato ed aveva intrinsecamente reminescenze dei tempi sovietici.

 I 5 più accreditati concorrenti hanno deciso di non partecipare ai teledibattiti, organizzati come confronti uno contro uno. Non si vuole fare pubblicità a comprimari poco conosciuti.

 I sondaggi rivelano poi che saranno le regioni centrali del Paese, quelle lungo il corso del Dniepr, ad essere l’ago della bilancia della partita in caso di ballottaggio. Una recente rilevazione con un margine di errore dell’1,8% dà in testa al primo turno Janukovich col 32,4%. Seguono la Timoshenko col 16,3 e Jatseniuk col 6,1%. Il presidente uscente Viktor Jushenko, anima della rivoluzione arancione del 2004, non dovrebbe superare il 5% e porterà via consensi alla premier con cui è entrato in rotta di collisione. 

 Una mina vagante è  Serghej Tigipko, ex governatore della Banca centrale – come lo fu anni addietro Jushenko -, oggi imprenditore. La sorpresa al primo turno potrebbe essere lui, asseriscono i ben informati. Su questo 50enne in gran forma potrebbero convergere i voti in uscita dall’ex coalizione arancione. Jushenko riuscirebbe così a mettere fuori gioco la Timoshenko ed al secondo turno accordarsi con Tigipko in funzione anti-Janukovich, garantendosi per il futuro. I nemici non gli mancano.

Se, invece, non vi saranno cose inaspettate gli esperti assegnano al ballottaggio la vittoria al grande sconfitto della rivoluzione arancione col 47,4%, mentre la principessa del gas non andrà oltre il 29%.

 Gli ucraini considerano Viktor Jushenko il maggiore responsabile dell’attuale gravissima crisi economica e dell’empasse, in cui si dibatte il mondo politico, che dura dal 2006 con troppe coabitazioni andate a male.

 Certo è che la situazione finanziaria è assai complessa, ma non disperata. Nel 2009 il Pil è sceso di un 15%, l’inflazione viaggia al 16% annuo, il debito estero ha superato i 100 miliardi di dollari. Secondo alcuni studi il tasso di economia sommersa corrisponde al 60% del Pil. Nessun politico o partito si è preso la briga di mettere le basi per le necessarie riforme nei mesi pre-elettorali così l’Fmi ha bloccato la terza tranche di un prestito già accordato.  Il budget per il 2010 verrà discusso alla Rada e dal governo soltanto dopo le presenti consultazioni.

 Gli esperti ritengono che il pericolo di azioni di massa, anche di forza con relativi disordini, non sia da escludere. I politici ucraini ci hanno abituato ad infinite risse con imponenti manifestazioni di piazza. Probabili, sempre secondo gli specialisti, i brogli anche se, a differenza del 2004, la copertura mediatica è maggiore e la legge elettorale è stata cambiata.

 Russia, Unione europea, Stati Uniti stanno alla finestra. All’apparenza nessuno vuole avere un grattacapo non da poco con un boomerang anche finanziario. L’Ucraina, però, è davvero importante dal punto geostrategico. E nessuno intende perderla!

 La battaglia d’Ucraina entra nel vivo. Il 17 gennaio è in  programma il primo turno delle attesissime elezioni presidenziali. Dal loro esito potrebbe cambiare il corso della repubblica ex sovietica, oggi tendente sempre più verso Occidente, verso l’Unione europea, e sempre meno verso la Russia.

 Tanti sono i candidati espressione di locali potentati economici nazionali e regionali. Due i netti favoriti per il ballottaggio: l’attuale premier Julija Timoshenko ed il russofono ex primo ministro Viktor Janukovich. Il terzo incomodo è il presidente uscente Viktor Jushenko che, seppur staccato nei sondaggi, mira ad indebolire la Timoshenko contro cui si è spesso scagliato in questi ultimi mesi criticando la politica economica del governo.

 La rivoluzione arancione dell’autunno 2004 ha visto i suoi protagonisti diventare acerrimi nemici. L’Ucraina vive un momento assai difficile per la gravissima crisi economica. Il Paese ha ottenuto un sostanzioso prestito dalle organizzazioni finanziarie internazionali, ma alcune sue tranches sono state bloccate per la mancanza di volontà di riforme. Con elezioni alle porte varie decisioni impopolari da prendere sono state rinviate.

 Proprio il congelamento dei prestiti fa temere alla russa Gazprom che l’11 gennaio l’Ucraina non pagherà le forniture di gas. Kiev nega ed afferma che tutto è a posto.

 Ufficialmente Russia, UE e Stati Uniti si mostrano lontani dalla contesa. Il presidente Medvedev ha, però, ribadito che è per colpa di Jushenko che le relazioni fra i due Paesi “fratelli slavi” sono così peggiorate. Mosca guarda comunque con simpatia sia alla Timoshenko che a Janukovich. Bruxelles si chiama fuori da uno scontro tradizionalmente a colpi bassi. E’ preoccupata soltanto dalla regolarità degli approvvigionamenti di gas. Obama segue la strada del “reset” col Cremlino e non intende infilarsi in una “rissa regionale”.

 Tanto, sostengono accreditati esperti, l’Ucraina seguirà verso Occidente e sarà la porta per le future riforme in Russia e nello spazio ex sovietico. Ma Mosca non è certo di questo parere.

Александр Лукашенко хочет купить украинскую электроэнергию. В Минске так надеются ослабить зависимость от российской нефти.

Деловая Газета – Виктор ЯДУХА – 05.11.2009

статья

На Украине началась предвыборная президентская кампания 19 октября 2009 года. Международная общественность интересуется ситуацией в бывшей социалистической республике. Один из вопросов – куда идет Крым.

Татьяна Ивженко  – Независимая Газета – 19.10.2009

статья

Договор о коллективной безответственности

Михаил Ростовский – MK

статья

 Gli occidentali hanno il calcio con la Champions League. Gli ex sovietici la musica con il festival della canzone continentale Eurovision. In palio vi è sempre l’onore nazionale. Mai nei 53 anni precedenti della competizione si erano registrati tanti scandali. Ma c’era da aspettarselo. Nel maggio 2008 a Belgrado vinsero i russi, che hanno acquisito il diritto di organizzare a Mosca la gara dell’anno successivo. Due i momenti principali di scontro: la canzone in rappresentanza della Georgia, Paese che ha combattuto in estate una sanguinosa guerra contro il Cremlino, e la selezione di quella padrona di casa.

 A Tbilisi ha trionfato il motivetto in inglese “We don’t wanna put in”, che, per assonanza, quando viene eseguito il ritornello, sembra diventare “We don’t want Putin” (noi non vogliamo Putin). Il gruppo Stephane and 3G non si accontenta solo di cantare qualcosa di poco accettabile per il potere moscovita, ma si spinge oltre mimando persino il gesto di puntare una pistola e sparare. Immaginabile la reazione dei russi, che hanno preso serissimamente la competizione organizzata con il patrocinio del governo. “Siamo dispiaciuti – ha detto il portavoce di Putin, Dmitrij Peshkov, – che i georgiani usino una gara così popolare in Europa per dimostrare le loro ambizioni semipolitiche”.

 Dietro alle quinte i russi hanno lavorato sodo e sono riusciti a far escludere dalla giuria internazionale questa canzone. Tbilisi ha così deciso di non inviare alcun rappresentante, adducendo rischi alla sicurezza personale. “We don’t wanna put in” è orecchiabile ed aveva concrete possibilità di sbancare Eurovision. Quasi tutti i Paesi dell’ex blocco sovietico, oggi in aperto contrasto con Mosca, l’avrebbero votata. Uno smacco del genere in casa sarebbe stato difficilmente digeribile dai russi!

 Il festival europeo verrà guardato dall’intero gigante slavo disteso su 11 fusi orari. Ecco perché era importante la selezione di chi avrebbe difeso l’onore nazionale all’Olimpiskij stadion. Ha vinto la 21enne Anastasia Prikhodko con “Mamo”, ossia “mamma”. Gran parte delle strofe è in russo, mentre il ritornello è in ucraino. La ragazza è di Kiev con tanto di passaporto della repubblica slava sorella, entrata in contrasto con il Cremlino per il gas. Il testo di “Mamo” è stato scritto da un noto compositore georgiano, Konstantin Meladze. Di nuovo i georgiani! I georgiani, del resto, nel panorama canterino ex sovietico, sono come i napoletani in Italia.

 Disgrazia, vergogna, shock sono i commenti più gettonati tra i pretendenti sconfitti e sulla stampa. “Cosa cavolo c’entri un’ucraina con la Russia”, è la domanda più comune nei forum di Internet, nonostante Anastasia Prikhodko non sia una sconosciuta ed abbia vinto la settima edizione di “Fabbrica delle stelle”.

 La sua canzone non era stata selezionata per Eurovision dagli ucraini, che non volevano essere rappresentati da una canzone con alcune strofe in russo. Nel 2007 Kiev aveva scelto Verka Serdjuchka. La sua “Lasha Tumbai”, quando veniva eseguita, sembrava trasformare il ritornello ufficiale in “Russia goodbye” (Russia, arrivederci). Insomma dall’ascia di guerra alla guerra dei microfoni. L’evoluzione sembra positiva.

 Marzo – Aprile 2009

zona rossa Cernobyl
Zona rossa

“Un minuto di silenzio davanti all’icona della Santa Immacolata nel centro storico. Così a Minsk l’opposizione bielorussa ha ricordato il 22esimo anniversario dell’incidente di Cernobyl. La vita di milioni di persone è cambiata completamente da quella terribile notte del 26 aprile 1986. Alla centrale, situata a 120 chilometri a nord-est di Kiev sul confine con la Bielorussia e non lontano da quella russa, era in corso un esperimento quando il reattore numero 4 esplose improvvisamente, disperdendo radioattività in mezza Europa. La peggiore catastrofe atomica civile della storia era avvenuta. Furono milioni gli sfollati.
Ancora adesso non si conosce nemmeno il numero preciso di quanti abbiano perso la vita per questa tragedia, che ha mietuto vittime soprattutto tra i 25mila “liquidatori” accorsi da ogni angolo dell’Urss. I dati sono discordanti e si aggiornano di continuo. Per l’Onu solo 4mila persone morirono, ma le organizzazioni non governative contestano le statistiche ufficiali. Qualcuno azzarda la cifra di 900mila morti a seguito delle conseguenze delle radiazioni. In Ucraina 2,3 milioni di cittadini soffrono ufficialmente delle conseguenze del dramma atomico. Ogni anno centinaia di migliaia di bambini, soprattutto bielorussi, vengono portati all’estero per diminuire le probabilità di sviluppare il cancro alla tiroide.
 “Tutti i reattori ad eccezione del quarto sono ormai senza combustibile”, ha affermato in un comunicato la Protezione civile ucraina. La centrale di Cernobyl è stata chiusa solo nel dicembre 2000. I maggiori problemi attuali riguardano il sarcofago che racchiude il reattore esploso con 200 tonnellate di magma radioattivo. Si sta facendo l’impossibile affinché pioggia e neve non entrino all’interno. Presto dovrebbe essere costruito un nuovo contenitore e siti di stoccaggio. L’obiettivo delle autorità è di ripulire completamente l’area entro il 2018. Il segretario dell’Onu Ban Ki-mon ha promesso aiuti per le bonifiche.
 Ieri, vigilia della Pasqua ortodossa, all’interno della zona interdetta che si estende fino a 30 chilometri dalla centrale, sono stati fatti entrare gli sfollati, almeno i più nostalgici. In nottata, a Kiev, il presidente ucraino Jushenko ha partecipato ad una funzione religiosa ed ha posto una corona di fiori al monumento dedicato alle vittime.
Nei giorni scorsi il quotidiano filo-governativo Sovetskaja Belarus’ ha ricordato che, quasi sempre con la approssimarsi della ricorrenza, iniziano a circolare le voci più strane. Quest’anno si è parlato di fantasiose fughe radioattive da impianti vicini, costruiti con la stessa tecnologia di quella di Cernobyl.
 Nella repubblica ex sovietica il presidente Lukashenko spinge per la costruzione di una centrale per limitare la dipendenza energetica dalla Russia. Nei mesi passati Minsk e Mosca hanno a lungo litigato sul prezzo delle materie prime e sul transito verso ovest. “Chi vuole bene al Paese appoggia il progetto”, ha detto Lukashenko, mentre chi è contro “non sono scienziati, ma banditi della politica, gente che appartiene alla seconda ondata di Cernobyl”.
 L’opposizione ha deciso di radunare firme contro qualsiasi centrale. “Questo – ha sottolineato il leader socialdemocratico Nikolaj Statkevich – è per noi un giorno di lutto poiché ricordiamo il passato. Ma è anche una giornata di vergogna, vergogna per il potere che continua a nascondere questa tragedia, potere che il primo maggio 1986 fece scendere in strada la gente per le manifestazioni in onore dei lavoratori”.

26.04.2008

Luglio 2009

 Un tempo le guerre tra Stati si combattevano sui campi di battaglia adesso sui mercati internazionali. E’ sintomatica la vicenda per la costruzione del gasdotto Nabucco. Questa pipeline dalla capacità conclusiva di 31 miliardi di metri cubi di metano l’anno ha l’obiettivo di trasportare il gas del mar Caspio fino al cuore del Vecchio Continente, evitando il territorio russo. L’opera lunga ben 3300 chilometri – duemila dei quali in Turchia – costerà l’astronomica cifra di 8 miliardi di dollari.

 Alla cerimonia per la firma ad Ankara per la costituzione del Nabucco erano presenti tra gli altri il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso ed un alto rappresentante statunitense per l’Energia. Sia Bruxelles che Washington spingono per incrementare la concorrenza alla Russia, che attualmente fornisce circa il 30% del fabbisogno annuale all’Unione europea.

 Al Cremlino tutto ciò non fa chiaramente piacere. Mosca ha ribadito, non solo a parole, di essere un partner affidabile ed ha dato il via alla costruzione di due faraonici gasdotti – uno sotto al mar Baltico (insieme ai tedeschi) e l’altro sotto al mar Nero (con l’italiana Eni) per aggirare gli ostacoli ucraino e bielorusso che, negli ultimi tempi, avevano creato problemi alle forniture all’Europa.

 Il dubbio degli specialisti è, però, un altro: dove accidenti sia i russi che gli europei troveranno la materia prima per così tante condotte nuove oltre a quelle già esistenti. Il Cremlino finora ha giocato d’anticipo: ha acquistato gran parte della produzione del Turkmenistan, che si appresta a rifornire anche la Cina ed il Nabucco (10 miliardi). Stesso discorso per l’Azerbaigian (8 agli europei): due settimane fa il presidente Medvedev ha siglato con Bakù un’analoga intesa per cospicui approvvigionamenti.

 In linea teorica i fornitori del Nabucco dovrebbero essere anche Iran, Iraq e Kazakhstan. Teheran sta vendendo all’estero una grossa fetta di produzione al nero per aggirare le sanzioni: la difficile situazione politica interna non depone poi a favore del consorzio europeo; Baghdad sta muovendo i primi passi per rilanciarsi sui mercati internazionali dopo 6 anni di guerra; Astanà ha una politica multivettoriale, ma difficilmente entrerà in rotta di collisione con Mosca.

 L’inizio della costruzione della pipeline europea è posto nel 2010 mentre la conclusione nel 2014. Resta da definire la quantità che la Turchia tratterrà per i vari diritti di transito. Per settimane le discussioni non hanno portato ad alcunché come a lungo non si è capito chi fossero i veri finanziatori del progetto rimasto per anni in naftalina.

 Per gli europei il Nabucco è uno dei modi per cementare l’amicizia con Ankara. Se proprio non si riesce a farla aderire all’Ue che si facciano perlomeno dei buoni affari. Per ora non importa che tutto quel gas non esiste nemmeno nei sogni del più incorreggibile ottimista!

Mosca. “L’Ossezia è indivisibile” recita un’enorme cartellone all’ingresso dell’ex repubblica separatista georgiana. Di tornare sotto l’egida di Tbilisi manco a parlarne. Il sogno della gente di Tskhinvali non è, però, quello di rimanere indipendenti, ma di riunirsi con i fratelli del nord, facendo sventolare sul suo territorio il tricolore russo.
I disastri provocati dai confini, disegnati scriteriatamente in epoca sovietica, prima o poi emergono nella loro gravità. E’ bastato che uno spericolato presidente nazionalista volesse mettere mano allo status quo di una remota provincia separatista che il mondo, nell’agosto di un anno fa, ha rischiato una guerra globale. Quando le navi della Nato sono entrate inaspettatamente nel mar Nero i polsi in molte cancellerie hanno iniziato a tremare. I russi erano a soli 40 chilometri da Tbilisi e parevano non volersi fermare. Per fortuna la ragione, alla fine, ha prevalso, come nel 1962 a Cuba per la crisi dei missili.
Questi spaventosi eventi di dodici mesi fa paiono oggi lontani secoli all’opinione pubblica internazionale. Il cambio della guardia alla Casa bianca e la politica più morbida del Cremlino nel “vicino estero” garantiscono un periodo di riflessione. L’Alleanza atlantica ha scelto di rimandare l’analisi del complesso capitolo sull’adesione alla Nato di Ucraina e Georgia, terre di straordinaria importanza geostrategica.
In Ossezia come in Abkhazia, l’altra regione indipendentista georgiana, la tensione si taglia, però, sempre col coltello. Ai confini le scaramucce sono continue come le reciproche accuse. Dall’Osce all’Ue gli appelli alla calma si sprecano. Tbilisi si sta riarmando e Mosca sta cercando soluzioni alle troppe pecche evidenziate durante l’intervento militare dell’anno scorso. Il negoziato a Ginevra è in vicolo cieco, la ricostruzione viaggia a rilento, migliaia di profughi combattono ogni giorno con una quotidianità diventata impossibile.
Sono bastate elezioni contrastate in Moldova, la settimana passata, per rendersi conto che i contendenti hanno soltanto temporaneamente sotterrato l’ascia di guerra. I sottomarini russi in “navigazione” davanti alle coste statunitensi come durante la Guerra Fredda, proprio in questi giorni dopo decenni di assenza, non sono un bel segnale.
Le priorità adesso sono, comunque, altre in presenza di una pesante crisi economica: “resettare” le relazioni per giungere ad un accordo conveniente per la riduzione dei vecchi arsenali nucleari; unire le forze contro l’acuirsi del pericolo radicale in Asia.
Due questioni centrali rimangono, tuttavia, irrisolte. E’ possibile trovare una linea diplomatica comune e spiegare perché il Kosovo ha ottenuto l’indipendenza mentre l’Ossezia o l’Abkhazia o la Transnistria non hanno tali requisiti? La Russia da partner strategico può diventare un alleato dell’Occidente nell’arco di una manciata di anni? A queste domande serve trovare rapide risposte. In gennaio si terranno tesissime elezioni presidenziali in Ucraina. Il capitolo della Crimea, clamorosamente regalata nel 1954 da Nikita Chrusciov a Kiev, è già sulla bocca di alcuni politici russi.
Altri nodi stanno, quindi, inesorabilmente giungendo al pettine. Non prepararsi in tempo ad affrontarli significa rischiare di finire alla mercè dell’irresponsabile di turno o di logiche malsane e pericolose.

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