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In silenzio, in ammirazione. Una donna fissa per lunghi minuti “La Sacra famiglia” di Andrea Mantegna. La mostra sul Rinascimento italiano è l’evento clou dell’anno al museo capitolino Pushkin. Un fiume di gente, soprattutto giovani, riempie le sale quasi tutti i giorni, ma nei fine settimana le file si allungano. La luce fioca cade sul quadro del maestro veneto in un ambiente sostanzialmente buio. Lo sfondo rosso delle pareti contribuisce a rendere l’atmosfera unica.

Il quadro del Mantegna era atteso con impazienza, poiché non vi sono sue opere nei musei russi. Particolare il destino di questo capolavoro. Dal 1945 al ’55 fu conservato proprio al Pushkin. Qualche mese prima di riconsegnarlo ai legittimi proprietari del museo di Dresda i russi organizzarono una mostra durata 5 mesi. “Ben 1,2 di visitatori – ricorda l’attuale direttrice del Pushkin Irina Antonova – vennero a vedere i tesori che sarebbero stati restituiti ai tedeschi”.

Ecco, quindi, in parte spiegata la grande attesa per godersi dal vivo questo capolavoro in olio della fine del quindicesimo secolo. Sue gigantografie capeggiano all’entrata di una delle gallerie più importanti del mondo. Alla biglietteria non si parla d’altro. Qualcuno sale di corsa una ripida scalinata di marmo, mettendo a dura prova il proprio fiato. Subito dopo lo stacco del tagliando d’ingresso il visitatore resta senza parole. La sala con il capolavoro è giusto di fronte, a qualche decina di metri, con quella saggia luce che illumina la meraviglia del Mantegna.

Farsi largo fra i tanti presenti e guadagnarsi una buona posizione d’osservazione non è facile. Bisogna attendere una manciata di minuti, rischiando qualche inavvertita spallata.

Il bambino in primo piano attrae subito l’attenzione. Il gioco dei colori lo mette ancor più in risalto rispetto alla sua naturale centralità nella rappresentazione. Ma tutte le figure, proposte su uno sfondo nero astratto, sono assolutamente a sé stanti. Il maestro veneto ottiene la concentrazione assoluta sull’uomo, che, come viene evidenziato dagli organizzatori della mostra, “è il maggior Dio dell’epoca del Rinascimento”. La tragica tensione di Giuseppe, la silenziosa pacatezza davanti alla sofferenza di Elisabetta (la madre di Giovanni Battista), il conquistante sentimento materno di Maria e la tranquillità infantile del Cristo, asseriscono i critici del Pushkin, non hanno analoghi nell’arte del suo tempo.

Mantegna (1461 – 1506) viene considerato il più “tragico e coraggioso” artista del primo Rinascimento italiano. Il suo amore per la civiltà latina è palese anche in questo capolavoro: il viso di San Giuseppe si avvicina a quello dei ritratti eroici sculturei del periodo della repubblica romana. I colori utilizzati creano un’espressione speciale di sentimento: solennità, gloria, ma anche dolore. Il restauro nel 2001 al J.Paul Getty Museum di Los Angeles ha davvero riconsegnato al capolavoro del maestro veneto tutte le sue splendide caratteristiche originali. Un fine vetro lo difende da flash fotografici e possibili attentatori.

Intorno al “La Sacra famiglia” sono posizionate opere di altri artisti rinascimentali quali ad esempio di Simone Martini, Dosso Dossi, Veronese, Vasari, Perugino. E’ un semplice assaggio che lascia comprendere la grandezza del Rinascimento italiano. I visitatori si accalcano anche intorno a queste bellezze alla ricerca del segreto di tali meraviglie.

L’amore dei russi per l’arte è un sentimento da sempre conosciuto. La collaborazione con gemelle istituzioni internazionali rende possibile l’organizzazione di mostre di così alto valore. In autunno il “Pushkin” si sdebiterà inviando un proprio capolavoro alla “Gemaldegalerie” di Dresda. La scelta è caduta su “La Sacra Famiglia e San Giovannino”, una tempera su tavola di Agnolo Bronzino. Il Rinascimento italiano impazza proprio nei musei di mezza Europa.

Primavera – Estate 2009

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“La ricostruzione del Bolshoj inizierà dal mese di maggio, ma l’edificio centrale verrà chiuso dal primo luglio 2005. I lavori finiranno entro marzo-aprile 2008. Questo tipo di intervento si era reso necessario da tempo e non si poteva più rimandare”. Anatolij Iksanov, direttore del teatro, ci ha accolto con squisita gentilezza nel suo ufficio. Da mesi è al centro di continue bufere. Il presidente Putin ha compiuto un sopralluogo per rendersi conto di persona della situazione. Il Bolshoj è uno dei simboli della Russia.

“La prima tappa della ricostruzione – ci spiega A.I. è già finita nel 2002, quando il 29 novembre dello stesso anno abbiamo aperto il secondo palcoscenico del Bolshoj e uno spazio per le prove. Adesso inizia la seconda tappa”.

Se i turisti stranieri verranno a Mosca in estate potranno ancora vedere il teatro? “Fino al primo luglio sì. Potranno sia visitare il palazzo del Bolshoj che vedere gli spettacoli. Dopo, potranno venirci a trovare al nuovo edificio che funzionerà regolarmente per i tre anni previsti per la ricostruzione di quello storico”.

Quali problemi avete incontrato per definire il progetto di ammodernamento del teatro. “Il nodo principale è stato quello di conciliare gli interessi per il mantenimento del palazzo come monumento architettonico e rendere possibile l’utilizzo delle tecnologie contemporanee per i teatri”.

Avete preso in esame le esperienze della Scala di Milano o la Fenice di Venezia? “Conosco le realtà della Scala, del Convent Garden, dell’Operà di Parigi. Ovunque, sono stato, ho visto ed ho analizzato. Il teatro Bolshoj è in un’altra situazione. Alla Scala vi è stata la possibilità di riunire il palazzo con l’edificio affianco e con un’altra torre. Non voglio giudicare. Tante sono state le discussioni. Al Convent Garden è avvenuto lo stesso: è stato occupato un edificio limitrofo. Al Bolshoj non si può intervenire in quel modo. Non possiamo mutare la vista qui intorno”.

Ed allora? “Possiamo solo guadagnare spazio allargandoci in basso per risolvere i problemi tecnologici. Sotto terra. Non c’è altra via uscita. Dietro al teatro ci sarà una zona pedonale. Sei istituti hanno lavorato per fornire soluzioni. Fin dal 1856, quando il teatro fu ricostruito dopo l’incendio vi sono stati problemi con le fondamenta. Per 150 anni sono stati un vero grattacapo e costantemente sono state rafforzate. Nel 1902 vi fu un piccolo cedimento tanto che la gente non riuscì ad uscire dalle logge. Negli anni ’50 si è persa un po’ di acustica. Ora si pone il problema di fare delle fondamenta che durino per 200 anni”.

Da quanto si apprende da fonti ufficiali e giornalistiche questa ricostruzione costerà tantissimo allo Stato russo. Si parla di cifre astronomiche. “Il progetto completo ha un costo calcolato di 25 miliardi di rubli (ndr. circa un miliardo di dollari). Lo Stato stanzierà una somma pari a 15 miliardi. Dobbiamo fare quindi riferimento a questa seconda cifra”.

Ma gli sponsor privati non contribuiranno? “I soldi degli sponsor servono per gli spettacoli e per la compagnia”.

In futuro, quale sarà l’immagine che darà il teatro Bolshoj di sé nel mondo? “Ritengo che rimarrà il maggior teatro d’opera russo”.

Che differenza esiste tra il Bolshoj ed il Mariinskij (ex Kirov) di San Pietroburgo, diretto da Gergiev? “Noi per un 60% rappresentiamo repertorio russo, mentre i pietroburghesi sono più orientati verso la cultura europea”.

Quest’anno avete proposto nel vostro tabellone un’opera moderna, un po’ diversa dal solito “I figli di Rosental”. Tante sono state le polemiche. “Sono contento che, per la prima volta dopo 30 anni, siamo riusciti a rappresentare un’opera che il teatro ha direttamente prenotato ad un artista ed ha compiuto il suo regolare corso. Un genere non si può sviluppare senza ordini nuovi. Sono contento delle tante discussioni sull’opera. Il prestigio di uno Paese dipende molto dal suo teatro. La Scala è l’Italia, L’Opera di Vienna è l’Austria. Il Convent Garden è la Gran Bretagna”.

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La polemica intorno a “I figli di Rosental” è stata forte.  “Tutte le opere nuove hanno difficoltà ad imporsi al pubblico ed alla critica. Anche il “Boris Godunov” nel 19esimo secolo ebbe un mucchio di critiche. La prima de“Il lago dei cigni” di Ciakovskij fu un disastro. Purtroppo, per la gente un’opera diventa un classico dopo decenni o dopo la morte dell’autore. Non ci sono profeti in Patria, si dice in Russia. Il Bolshoj non è un museo. La sua missione è lo sviluppo del balletto e dell’opera”.

Alcuni deputati hanno duramente criticato l’autore Sorokin ed il suo lavoro. “E’ solo ignoranza. L’1% della gente va a teatro. I deputati vogliono farsi pubblicità. Sarebbe stato meglio che perlomeno avessero letto il libretto. Il Bolshoj è uno dei simboli della Russia. Se fossero state organizzate le stesse cose per un altro teatro nessuno ci avrebbe fatto caso”.

Certo che i soldi per la ricostruzione sono enormi “Ho già detto che le due cose possono essere associate. Sono tanti gli interessi in comune”.

E come vi siete tutelati? “Fin dal principio ho affermato il principio che i soldi della ricostruzione devono essere gestiti da altri non dalla direzione del teatro. Non vogliamo avere nemmeno un copeco in mano. Io non sono un costruttore. Mi si può imbrogliare facilmente. Noi rappresentiamo spettacoli e verificheremo come va avanti il progetto. Il controllo rimane a noi”.

Non c’è un tentativo dall’alto di imporre una linea alla cultura? “A San Pietroburgo una compagnia è stata denunciata per aver messo in scena il Revisore di Gogol in una forma non classica. Mi chiedo se sia una tendenza generale o la stupidità di alcune persone singole. Io ritengo che sia fondata la seconda ipotesi. Anche se ci sto riflettendo da tempo. Qui al Bolshoj è venuto Putin, che ha visto i manifesti de “I figli di Rosental”. Non ha detto niente. Non c’è alcuna reazione ufficiale. Solo l’arte libera può dare aria alla società. In Russia il teatro è sempre stato una tribuna dove si poteva parlare in modo emozionale di cose che creavano problemi in politica. “I figli di Rosental” è un’opera per la società”.

Giuseppe D’Amato

Газета “Тамбовское время”

Радинский лагерь № 188, где в годы Второй мировой войны и два года после её окончания содержались военнопленные 29 национальностей, продолжает интересовать иностранных журналистов. В декабре 2002 года в Тамбове побывал итальянский журналист Джузеппе Д’ Амато. Интерес его понятен – на лесных погостах под Тамбовом похоронены тысячи солдат Итальянской армии, умерших в лагере № 188…

 Взгляд иностранца на трагедию своих соотечественников всегда интересен…  

Ледяной  ад  Рады

…Воздух  ледяной. Заснеженная земля  искрится, но не греет. В некоторых местах снег доходит почти до колен. Александра Крушатина несмотря на свои 79 лет, идёт легко и  уверенно, вероятно, благодаря  ещё и  тому, что обута в чёрные валенки – сапоги из войлока.  “Вот, здесь спали военнопленные,” – показывает она  после пяти минут ходьбы на заполненный снегом ров, в котором еще видны вкопанные в землю сваи.

  

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Александра Крушатина

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Здесь, в шести километрах от лагеря останавливался на ночь один из многих  рабочих  отрядов, которые рубили дубы, которые  использовались Красной армией для строительства мостов или применялась на шахтах  Донбасса на Украине.

Ровно шестьдесят лет тому назад в России произошло самое большое бедствие в итальянской военной истории и самое массовое уничтожение наших солдат за все времена. В три этапа, между  ноябрем 1942 года и январем 1943, Красная армия окружила и разбила в боях войска “Берлинско-Римской оси” в Сталинграде и на  Дону. Только части итальянского альпийского  корпуса смогли отступить, прорвав окружение в Николаевке  26 января 1943 года.

Продвижение  Итальянской армии там и закончилось. По советским данным в сражениях и от лишений умерло около 25 тысяч итальянских солдат, около 70  тысяч попали в плен. Для них началась адская одиссея. Домой вернулись только 10.030…

–  Мы не понимали, что говорили пленные. Они здесь были всех национальностей, – рассказывает Александра Крушатина, сидя под образами в своем деревянном доме, обставленном так, будто  время здесь остановилось. – Некоторые пленные  работали с гражданским населением. Но почему они должны были  бежать? А куда потом? В конце концов, у них в лагере была еда. Отношение к ним были хорошими, иногда они обменивали свои вещи на еду. Особые случаи? Однажды мы с подругой Юлией оказались рядом со станцией. Некоторые пленные по-русски кричали, чтобы мы подошли к вагонам.  Хотели обнять и расцеловать нас. Что же, они же были ребята  молодые…

Массовая гибель итальянских пленных продолжалась первые шесть месяцев после  пленения. Из-за  отсутствия  транспорта советские власти  заставляли  арестантов  проходить пешком  сотни километров  по   заснеженным дорогам во время сильных морозов. Как многочисленны трагические рассказы выживших об этих “походах”!  И всё под крики:  “Давай, давай!”  У истощенных итальянских солдат леденела кровь, погибающих от голода и болезней расстреливали советские охранники. Когда пленные доходили до железной дороги, их набивали в вагоны для скота как сардины в банку. Путь длился днями, неделями с бесконечными остановками, почти без еды и воды. Когда поезд приезжал в сортировочный лагерь, и открывались пломбированные вагоны, мертвых в них было больше, чем выживших.

И именно в этот лес к Рождеству 1942 года добрались насквозь промёрзшие пехотинцы  Итальянской армии, заполняя один из самых больших концентрационных лагерей  СССР  – лагерь № 188 на станции Рада, недалеко от Тамбова, расположенного примерно в 480 километрах к юго-востоку от Москвы. Недалеко от железнодорожной станции находится первая братская могила.

За шесть месяцев, начиная с декабря 1942 года, сюда  поступило 24 тысячи пленных, из которых 10118  итальянцев. Лагерь не был приспособлен к приему такого количества людей. Сами тюремщики спали во времянках. Смертность была высочайшей: за десять месяцев было зарегистрировано 14433 смертей. Уровень смертности среди итальянцев  лагеря № 188 превысил 70 процентов.

Рассказы, переживших все это, леденят душу: голод, холод, болезни. Не хватало самого необходимого. Очень часто случались драки из-за куска хлеба.  Умерших зачастую даже не хоронили, чтобы иметь возможность получить лишнюю порцию еды. Одичание было полным. Лагерь зарастал грязью и превращался в лазарет: свирепствовали дизентерия и сыпной тиф.  Вши не давали покоя, и от них  было невозможно избавиться никаким способом.

Концентрационный лагерь на станции  Рада был организован в конце 1941 года: советским властям понадобилось место для фильтрации своих собственных солдат и партизан, подозреваемых в сговоре с врагом только потому, что они попали в плен. Пленные жили в  больших  землянках и бараке, способном вместить  80 человек.

Со временем лагерь  расширился, и условия жизни значительно улучшились Удавалось даже отслужить мессу на Пасху и на Рождество. В 1947 году лагерь на Раде был закрыт.

–  Вероятно из-за ссоры между Сталиным и генералом Де Голлем, – высказал предположение наш гид Евгений Писарев. – Здесь содержались пленные эльзасцы и лотарингцы, которых Гитлер призвал в свою армию насильно. Некоторые из них в конце войны были переданы в распоряжение командования армии генерала Де Голля и были отправлены сражаться в Северную Африку…

НКВД, секретная советская полиция, уничтожила все следы лагеря. Зона осталась секретной ещё и из-за соседства с военным полигоном. “Забыть!” –  таков был приказ Лубянки. Все личные карточки пленных (опросные листы – Ред.) были отправлены в Москву в Военный архив, где они ревностно охраняются до сих пор.

–  Их почти невозможно получить для изучения, – объясняет московский историк Никита Охотин, который исследует историю итальянских коммунистов, погибших во время сталинских репрессий. – Однако министру обороны Италии с помощью организации Anni Novanta всё-таки удалось получить микрофильмы с некоторыми списками ваших военных…

Но, к сожалению, имена в них записаны кириллицей, фамилии трудно разобрать, и они часто не  соответствуют фамилиям солдат Итальянской армии. Зато в Тамбове в областном архиве остались документы, забытые там из-за обычной русской  небрежности.

–  Здесь 44 папки с общими данными: приказы, список материалов и оборудования. Мы случайно нашли их  в начале 90-х, – говорит нам архивариус Татьяна Кротова, показывая отчет о задержании двух беглых итальянцев.

Это Феличе Челоти, 1918 года рождения, классифицированный  лагерной администрацией как антифашист, и Анджело Кальцани, 1920 года рождения. Они были арестованы в 25 километрах от Рады.

 

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 По снегу мы подходим к мемориальному кладбищу, открытому в августе 1998 года. Через десятки лет память о погибших, наконец, победила забвение. Оживлению памяти о тех трагических годах способствовал визит сюда Карло Азелио Чампи 29 ноября 2000 года. Жители Тамбова с восхищением говорят о  Чампи. “Сюда, – заметил  Писарев, – никто никогда не приезжал: ни Ельцин, ни Путин, ни лидеры зарубежных государств. А ваш президент приехал…”

Будущий глава Италии был призван в армию осенью 1942 года, сражался в Албании в автомобильных войсках. Но он мог бы быть направлен и в Россию, особенно в тот период, когда начал разваливаться  Донской фронт.

 

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Президент Италии Карло Чампи на Радинском мемориале.

 

Фото Е. Писарева

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

…Температура опустилась ниже 20 градусов: в таких же климатических условиях оказались и наши военные  шестьдесят лет тому назад. Здесь много разных надгробий, установленных в память о тысячах солдат 29 национальностей (многие были даже союзниками русских: англичане, американцы, поляки!). Все они прошли через Раду и погребенных здесь в гигантских братских могилах. Здесь спят вечным сном от 10 до 15 тысяч наших парней. Имена многих из них не известны.

Мы находим засыпанный снегом итальянский надгробный памятник. Глубокое волнение, испытываемое здесь посетителем, заставляет его застыть в благоговейном молчании. На ум приходят слова, произнесенные Чампи два года назад в Тамбове: “Межнациональное общение – это защита от варварства. Если в памяти не будут живы ужасы войны, прошлое может повториться…”

Джузеппе Д’Амато

Перевод с итальянского Ирины Панковой

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Слева, Периц, Ловато, Морозов, Леонарди, Веттораццо

 Николаевка (в наши дни – Ливенка).   Вот, наконец-то, и она. Ни одно поколение итальянцев слышали рассказы об этом затерянном в русской степи месте. Именно здесь 26 января 1943 года тысячи молодых итальянцев вписали в историю своей страны новую страницу – героическую и драматическую одновременно.

Сегодня рыночный день. Главная улица поселка, заасфальтированная только наполовину, заполнена грузовиками, разгружающими всевозможные товары. Вокруг них толкаются местные жители в характерных для российского юга одеждах, покрытых придорожной пылью.  Три деревни, находящиеся по соседству на небольшойравнине среди холмов, образуют населенный пункт, известный сегодня как Ливенка.

Дома, стоящие вдоль железной дороги, соединяющей Россию и Украину, образуют Николаевку – поселок, указанный на бывших итало-немецких военных картах, которые, в свою очередь, основывались на российских картах времен П ервой мировой войны.
Ничто сегодня не напоминает о боях, проходивших в этих краях 60 лет назад. Лишь неподалеку от поселка на одной из затерянных полян на месте братского захоронения итальянская Организация Памяти павших (Onorcaduti) установила мемориальную доску.
Наш гид – профессор истории Алим Морозов – показывает  нам два подземных туннеля, по которым прошли отдельны е части итальянских горных альпийских войск, а также железнодорожную станцию, носящую сегодня название Палатовка, где итальянцы одержали победу, прорвав оборону советских войск.

“Это была победа отчаяния, безысходности, злости, желания вернуться домой. Мы должны были или вырваться или умереть”,- рассказывает   нам накануне в Россоши Гвидо Веттораццо, в те далекие времена двадцатитрехлетний парень, один из немногих уцелевших альпийцев дивизии “Джулия”. Мы познакомились с ним, а также с тремя другими итальянскими ветеранами, в кабинете мэра Россоши. Вид их красивых форменных шляп с перьями на несколько секунд лишил нас дара речи.

По словам нашего гида, около 5 тысяч советских солдат с минометами, пушками, пулеметами превратили прилегающую к железной дороге территорию Николаевки в огромное заграждение. В 9.30 утра 26 января итальянцы начали свой штурм отчаяния вместе с несколькими немецкими и венгерскими частями, всего около 40-50 тысяч солдат, полуобмороженных, голодных, плохо вооруженных. До наступления темноты прорвать советскую оборону не удалось. Оставаться дольше под открытым небом означало либо умереть от холода, либо необходимость сдаться после 10-ти дневного форсированного похода в снегах, в двух шагах от спасения.

Неожиданно для смертельно уставших солдат итальянский генерал Ревербери, командующий дивизией “Тридентина”, вскочив на немецкий танк, закричал: “Тридентина, вперед!”, подняв в атаку лишенных всяческих сил альпийцев.

“Ни я, ни Гвидо не слышали этот крик,” – вспоминает Адольфо Ловато из “Тридентины”, – “мы только увидели огромную массу людей, поднявшихся в атаку.” Так, используя лишь холодное оружие, итальянским альпийским войскам удалось прорвать заграждения и вырваться из мешка, в который их заключили советские войска.

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Станция Палатовка

Военный альпийский корпус, первоначально направленный на Кавказ, в сентябре 1942 года был передислоцирован на Средний Дон. Командный штаб был расположен в Россоши, в то время 14-ти тысячном населенном пункте. “Наша кампания с самого начала была обречена на неудачу. После Греции итальянский фашизм выдумал этот поход на Россию”, – говорит Веттораццо. Очень скоро, особенно с наступлением зимних холодов, итальянское штабное начальство начало отдавать себе отчет в своих ошибках, особенно в том, что касалось обмундирования, в частности, обуви. Римские функционеры уделяли повышенное внимание внешнему виду своих солдат, не забо тясь о качестве военной формы. Альпийцы были вынуждены выменивать у местного населения продукты питания на теплые  валенки и одежду. Во время морозов оружие и грузовики отказывались работать. Несмотря на все заверения военачальников, итальянские солдаты, обученные ведению боевых действий в горах, вскоре поняли, что очень мало подходят для войны на равнинной местности.

14 января 1943 г. случилось неизбежное: несмотря на суровые погодные  условия советские войска неожиданно атаковали с юга сотней танков, разгромив 24-й немецкий танковый корпус, оставив за плечами итальянские дивизии, оказавшиеся таким образом в окружении. На следующий день альпийцы обнаружили советские танки в самой Россоши. Вместе с танками в город прибыли войска на американских джипах, грузовики везли тяжелую артиллерийскую технику. Итальянское командование дало немедленный приказ покинуть Дон дивизиям “Джулия”, “Кунеенсе”, “Тридентина”, а также пехотной дивизии “Виченца”. Это было началом Голгофы. “Мы отступили как нельзя лучше – неожиданно”, – комментирует Адольфо Ловато.

Альпийцы бросили большую часть транспортных средств и тяжелого вооружения. В течение нескольких часов советские танки взяли под свой контроль главные улицы Россоши, вынудив итальянцев в безумной 150-ти километровой гонке по заснеженным полям отступать на запад, чтобы выйти из окружения.

“Температура в те дни была около минус 20, в ночные часы – минус 35,”- дополняет Морозов, – “но из-за ветра мороз чувсвовался еще сильнее. В полях снег достигал в высоту 60 сантиметров, а в некоторых местах был по плечи.” В первый момент приказ итальянского командования был отойти к  деревне Валуйки, которая, однако, была к 17 января уже захвачена 10-ти тысячным войском казаков. Именно там спустя 10 дней были уничтожены остатки “Джулии” и “Кунеенсе”. “Тогда мы почувствовали полное  равнодушие наше го высшего командования,” – замечает с горечью Веттораццо. – “Радиосвязь между нашими дивизиями не работала.” Странно то, что и по сей день, спустя 60 лет, итальянскими военными не проведен какой-либо анализ тех боевых действий.

В “Тридентине” стало известно о ситуации в Валуйках, и генерал Гарибольди 21 января дал приказ изменить направление и продвигаться в сторону Николаевки. Колонна итальянских солдат, безоружных, многие из которых отстали от своих частей, на случайно найденных санках, растянулась на 40 километров.
Самое кровопролитное для итальянцев столкновение произошло здесь в Новопостояловке 20 января, а не в Николаевке,” – утверждает Морозов, показывая нам дорогу, на которой располагалась советская артиллерия, и избы, где поджидали неприятеля русские солдаты. – “Около 2 тысяч  убитых в течение 30 часов, “Джулия” и “Кунеенсе” практически уничтоженные, вынужденные атаковать в открытом заснеженном поле. ..”

Настоящее самоубийство. Итальянцы отброшены назад. Но на севере в поселке Постоялом “Тридентина”, еще живая, прорвала брешь в советских рядах.

Мы с нашим гидом двигаемся в сторону Николаевки, проезжая Варваровку, Никитовку, Арнаутово. Местные холмы и равнины очень напоминают итальянские пейзажи. Повсюду можно наблюдать пасущихся коров, прогуливающихся вдоль дорог гусей… По мнению итальянцев число противника было во много раз выше: от  1:10 до 1:14. Русские утверждают обратное. Так, по словам Морозова, во многих населенных пунктах в воинские ряды призывались подростки из числа местной коммунистической молодежи. Очевидно, что стратегия сталинских генералов оказалась намного успешней. Окончательным результатом явилось то, что наибольшая часть итальянской армии была взята в плен практически без сопротивления.

Цифры меняются в зависимости от источника. По некоторым данным во время отступления п огибло 25-30 тысяч солдат. Массовая гибель около 70 тысяч пленных произошла с января по апрель 1943. Практически все они умерли от голода и холода по дороге в лагеря, многие из них уже за Уралом  и в Сибири.

В Советском Союзе, где и своим не хватало еды, не были готовы принять столько пленных. Ветеран Джанни Периц показывает нам некоторые леденящие кровь данные: только 10 тысяч итальянских военнопленных смогли попасть на родину из советских лагерей, и, следовательно, около  100 тысяч человек так и не вернулись.

“Очень трудно восстановить имена погибших,” – объясняет фельдфебель Андреа Муцци из Генерального  комиссариата Вооруженных Сил Италии, также встреченный нами в  Россоши, где он занимается планированием мероприятий по эксгумации  останков итальянских солдат в 2003 г. – “Советские лагерные охранники  вели записи в своих журналах на кириллице, спрашивая у пленных имя  очередного умершего и записывая его так, как им слышалось.”

Мы спросили у двух ветеранов и у профессора Морозова, правда ли, что некоторые итальянские солдаты могли найти пристанища в домах местных жителей, на что получили сухой ответ: “Нет. Это кинематографические выдумки“. ” В те времена военный контроль был железным,” – объясняет наш русский гид. -“Я знаю некоторые случаи того, как итальянцы были выхожены русскими, но затем все равно выданы властям”.

Время от времени в ходе раскопок захоронений тех лет находятся сохранившиеся личные вещи итальянских военнослужащих. Так, недавно был найден армейский котелок. Выяснилось, что он принадлежал погибшему отцу мэра городка Кайро Монтенотте Освальдо Кебелло,  который лично поехал в Россию забрать эту память об отце. По рассказам русских оттепель в тот далекий год была ужасной: женщины и дети направлялись закапывать останки погибших, которые  сваливались в братские могилы из-за боязни распространения инфекции. Сегодня именно эти захоронения тщательно разыскиваются, несмотря на все трудности, благодаря государственной итало-российской программе по эксгумации.

К настоящему времени около 8 тысяч останков погибших были возвращены на свою родину и нашли вечный покой на кладбище Карньяччо в области Фриули.
Следуя девизу “Помнить о мертвых, помогать живым”, военные из Национальной Ассоциации Альпийцев(ANA)построили в Россоши в 1992-1993 г.г. детский сад для 120 российских детей. Так называемая “Операция улыбка” объединила 773 добровольца, поделенных на 21 группу. Все необходимые  для строительства материалы были привезены из Италии.

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19 сентября 2003 года будет отмечаться 10-ти летний юбилей садика. Более тысячи итальянцев уже собираются приехать в Россошь для участия в этом  празднике. “Мы стараемся развивать и крепить наши контакты с Италией”, – говорит мэр Россоши Виктор Квасов, который видит в этих отношениях с бывшим неприятелем та кже и возможность для решения некоторых проблем своего города. “Мы надеемся на более выгодное сотрудничество в экономической и социальной областях. Было бы неплохо, если бы и некоторые из наших детей-сирот смогли найти себе приемных родителей в Италии.”

Как сказал президент Национальной Ассоциации Альпийцев Леонардо Каприоли: “Мы не хотим строитьтолько памятники, – вместе с русскими мы должны посвятить себя помощи детям”.

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Детский сад в Россоши

ПЕРСОНАЖ

Россошь. Если итальянцам и русским удалось вписать новую страницу в историю дружбы и взаимопомощи на берегах Дона после трагедии Второй мировой войны, то произошло это во многом и благодаря Алиму Морозову.

70 лет, говор, типичный для южной России, напоминающий чем-то говор Горбачева, восточный разрез глаз, – этот преподаватель истории средней школы из Россоши первым начал пробивать стену недоверия и ненависти по отношению к побежденному врагу, которую советская пропаган да  выстраивала на протяжении десятилетий. “Когда в конце 80-х я обратился к областным властям с предложением построить первый памятник погибшим  итальянским солдатам,” – рассказывает нам Морозов, – “они меня приняли за провокатора.

Лишь понимание местного руководства несколько облегчило бюрократическую волокиту.” Но видно время перемен еще не пришло: половина населения Россоши была против строительства памятника, который будучи открыт 26 августа 1990 г. на северной окраине города недалеко от местного кладбища, был вскоре варварски уничтожен.

Несмотря на это происшествие Морозов не потерял присутствия духа. Начиная с 1988 года все больше и больше туристов и ветеранов войны приезжают в Россошь в поисках каких-либо сведений о погибших или пропавших без вести родственниках. Необходимо было найти место, куда приезжающие могли бы принести цветы. Так заново был построен памятник, строительство которого первоначально с понсировало туристическое агентство “Ла Рондине” из города Альба. Это было первым вкладом Итальянского государства.

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Памятник в Россоши

Затем практически один, без какой-либо финансовой помощи Морозов начал организацию музея о войне на Дону, собирая где только возможно экспонаты. Часть музея, который расположился в стенах построенного итальянцами детского сада, посвящена советским воинам, другая часть – итальянцам.

Алим Морозов является также автором книги “Война у моего дома“, частично переведенной на итальянский язык. Образ человечных итальянцев, братающихся с русскими, в этой книге контрастирует с грубостью и жестокостью немецких солдат.

С сентября 1942 по 15 января 1943 итальянские солдаты находились в Россоши, и местные жители смогли достаточно хорошо узнать их. Морозов, в то время 10-летний мальчик, знает о тех событиях не по наслышке: альпийцы жили в его доме. Он прямой свидетель того, как эти солдаты всем сердцем были против войны, мечтали о возвращении домой, к своим семьям. Затем, после того как итальянские дивизии были разбиты, перед мальчиком прошли тысячи этих солдат, уже пленных.

Так, на всю жизнь у Алима Морозова остался интерес к судьбам тех солдат, с которыми он познакомился лично: смогли ли они выжить в том аду?
Именно любопытство, упорство, симпатия по отношению к итальянскому народу вместе с мудростью и честностью сделали этого школьного преподавателя квалифицированным экспертом по вопросам войны на Дону.

Джузеппе Д’Амато

Nikolajewka (oggi Livenka) – Eccola finalmente! Generazioni di italiani hanno sentito parlare di questa località sperduta nella steppa russa. E’ qui, come ad El Alamein o a Tobruk, che migliaia di nostri ragazzi hanno scritto una pagina eroica e drammatica della storia d’Italia, il 26 gennaio del ‘43.

Oggi è giorno di mercato. La via principale, per metà asfaltata e per metà in terra, è piena di camion che scaricano merci d’ogni tipo. La gente si accalca nella polvere. E’ vestita in maniera assai sobria e povera, tipica dei contadini della Russia meridionale.  Tre villaggi agricoli, unitisi in questo minuto pianoro fra le colline, costituiscono il paese, oggi conosciuto come Livenka. Le case a ridosso della ferrovia per l’Ucraina formano Nikolajewka, denominazione segnata sulle carte militari italo-tedesche, basate a loro volta su quelle russe della Prima guerra mondiale.

Niente ricorda la battaglia campale di 60 anni fa. Solo fuori paese in un prato nascosto, dove si trovava una fossa comune, Onorcaduti ha eretto una lapide. La nostra guida, il prof. Alim Morozov, ci fa visitare due sottopassaggi da cui sono passati parte delle truppe alpine e la stazione ferroviaria (oggi denominata Palatovka), dove i nostri hanno sfondato. <<E’ stata la vittoria della disperazione, della rabbia, della voglia di tornare a casa. O si passava o si moriva>>, ci ha raccontato il giorno prima a Rossosch, Guido Vettorazzo, allora poco più che ventenne, uno dei pochi della “Julia” che si è salvato. L’abbiamo incontrato nell’ufficio del sindaco in compagnia di tre altri “veci”. La vista dei loro bei cappelli con la piuma ci ha lasciato per qualche secondo senza parole.

 

Circa 5mila sovietici con mortai, cannoni e mitragliatrici avevano trasformato il terrapieno della ferrovia di Nikolajewka in un formidabile sbarramento, ci spiega la nostra guida. Alle 9,30 del mattino del 26 gennaio inizia l’assalto disperato degli italiani insieme a qualche reparto tedesco ed ungherese, forse 40-50mila uomini, male armati, mezzi congelati, affamati.

Alle 16 è già buio. Non si passa. Rimanere all’addiaccio avrebbe significato morire al gelo o arrendersi, dopo 10 giorni di marcia forzata nella neve, proprio a due passi dalla salvezza. All’improvviso il miracolo. Il generale Reverberi, comandante della “Tridentina” salta su un tank tedesco e grida <<Tridentina, avanti!>>, mettendo di nuovo in moto gli alpini ormai sfiniti. <<Né io né Guido abbiamo sentito quel grido – ricorda Adolfo Lovato della “Tridentina” – ma abbiamo visto una massa enorme di gente andare all’attacco>>. Così, combattendo all’arma bianca, gli alpini hanno sfondato e sono usciti dalla sacca in cui i sovietici li avevano chiusi.

Il corpo d’Armata alpino, diretto in un primo momento sulle montagne del Caucaso, era stato ridislocato a controllare le difese trincerate sul Medio Don nel settembre ‘42. Aveva stabilito il suo comando a Rossosch, allora centro con 14mila abitanti. <<La nostra era una missione pompata – sottolinea Vettorazzo -. Dopo la Grecia il fascismo si era inventato la Russia>>.

Ben presto, con il sopraggiungere dell’inverno, gli ufficiali si rendono conto dell’inadeguatezza dell’equipaggiamento. I maggiori problemi sono legati alle calzature. Roma cincischia su questioni di look. Così gli alpini sono costretti a scambiare con la popolazione locale cibo per vestiti e valenki (stivali caldi russi). Col gelo le armi e i camion non funzionano più. Sul piano militare, malgrado le assicurazioni alleate, gli italiani capiscono di essere vulnerabili, poco adatti ad una guerra in pianura. I tedeschi devono garantire la mobilità dell’intero schieramento di difesa sul Don.

Il 14 gennaio ’43 accade l’impensabile: malgrado il tempo inclemente i sovietici attaccano di sorpresa da sud con centinaia di tank, sbaragliando il 24esimo corazzato tedesco, prendendo le altre divisioni alle spalle. La frittata è fatta! Il giorno dopo gli alpini si ritrovano i carri armati di Stalin fin dentro Rossosch. Arrivano anche le truppe a bordo di jeep americane e camion speciali Usa trasportano l’artiglieria pesante. Il comando italiano dà l’immediato ordine di ritirata dal Don alla “Julia”, alla “Cuneense”, alla divisione di fanteria “Vicenza” ed alla “Tridentina”.

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La ritirata – Museo del Medio Don

E’ l’inizio del calvario. <<Abbiamo ripiegato nel miglior modo possibile, all’improvviso>>, commenta Lovato.  Gli alpini abbandonano la maggior parte delle armi pesanti ed i veicoli. In poche ore i carri armati sovietici prendono il controllo delle strade principali, costringendo gli italiani a ritirarsi verso occidente in una folle corsa di circa 150 chilometri attraverso campi gelati e paesini sperduti per uscire dall’accerchiamento. Le imboscate sono frequenti, gli atti di eroismo non si contano. <<La temperatura doveva essere di giorno sui meno 20, di notte intorno ai meno 35 – sostiene Morozov -, ma il vento faceva sentir ancora di più il freddo. Nei campi c’era una sessantina di centimetri di neve, che, però, non era uniforme ed, in alcuni punti, poteva arrivare fino alle spalle>>.

In un primo momento, l’ordine è di ritirarsi verso Valuiki, che, però, è già stata occupata il 17 gennaio dai 10mila cosacchi. Ed è lì che finiranno annientati i resti della “Julia” e della “Cuneense”, 10 giorni dopo. <<Questo dà il senso dell’ignoranza dei nostri alti comandi – accusa amaramente Vettorazzo -. I collegamenti radio fra le divisioni non funzionavano>>. La confusione più totale che, dopo 60 anni, non ha trovato ancora una necessaria analisi critica fra i nostri militari. La “Tridentina”, invece, viene a sapere della situazione a Valuiki ed il generale Gariboldi dà ordine il 21 a Sheliakino di cambiare direzione e marciare su Nikolajewka. La colonna degli italiani, molti sbandati senza armi e a bordo di slitte di fortuna, è ormai lunga 40 chilometri con quello che rimane della “Cuneense” in retroguardia.

<<Lo scontro più sanguinoso che hanno avuto gli italiani in Russia è avvenuto il 20 gennaio qui a Novopostojalovka non a Nikolajewka – afferma sicuro Morozov, mentre ci mostra la strada dove era posizionata l’artiglieria sovietica e le izbe dove si erano nascosti i soldati di Stalin -. Circa duemila i morti in 30 ore con la “Cuneense” e la “Julia” praticamente decimate, costrette ad attaccare in campo aperto, per di più pieno di neve>>. In pratica, un vero suicidio. Gli italiani vengono respinti. Ma, poco più a nord, a Postojalyi, la “Tridentina”, arrivata da Podgornoje ed ancora efficiente, ha aperto una breccia.

Percorriamo la strada fino a Nikolajewka, passando per Warwarowka, Nikitowka, Arnautovo. E’ un susseguirsi di colline più o meno soavi e pianure che assomigliano ai nostri altipiani. Villaggi e fattorie si alternano spesso nel nulla. Ovunque si osservano mandrie di vacche e gruppi di oche che passeggiano lungo le strade. I russi viaggiano spesso a bordo dei trattori o su dei modelli superati di sidecar.

alpini asilo rossosch Davanti all’asilo di Rossosch. Da sinistra, Periz, Lovato, Morozov, Leonardi, Vettorazzo.

Gli italiani sostengono che il nemico era in numero nettamente superiore. Qualcuno azzarda a dire 1 a 10, 1 a 14. I sovietici affermano esattamente il contrario. Ed infatti in alcuni paesini, ci dice Morozov, sono stati costretti ad arruolare gli adolescenti della locale “gioventù comunista”. E’ evidente che la strategia dei generali di Stalin è stata vincente.

Il risultato finale è che la maggior parte delle Armate italiane è stata fatta prigioniera quasi senza combattere. Il balletto delle cifre cambia a seconda della fonte. 25-30mila i caduti in ritirata. L’ecatombe in Russia è avvenuta soprattutto fra i circa 70mila prigionieri o forse più, morti quasi tutti fra gennaio ed aprile ’43 per fame e freddo prima di arrivare ai lager, molti oltre gli Urali in Siberia. I sovietici non erano preparati ad accogliere tanta gente. Il cibo mancava anche per loro. Gianni Periz ci mostra alcuni dati, semplicemente agghiaccianti: solo 10mila prigionieri italiani sono tornati a casa dai lager sovietici.

All’appello, quindi, mancano in totale circa 100mila nostri militari. <<E’ difficile ricostruire i nomi dei caduti – ci spiega il maresciallo Andrea Muzzi, del Commissariato generale delle FFAA, incontrato per caso in albergo a Rossosch, dove stava programmando il piano per le esumazioni per l’anno in corso -. I carcerieri russi annotavano i nomi dei morti italiani in cirillico sui registri dei lager, chiedendo ai prigionieri il nome del deceduto e trascrivevano quello che capivano>>.

L’identificazione dei caduti è qualcosa, spesso, di impossibile. <<Come ci hanno detto i reduci – sottolinea da Roma il colonnello Paolillo – i nostri militari si levavano le piastrine: erano fastidiose! Queste erano di rame, così se oggi vengono ritrovate sono illeggibili>>.

Qualcuno dei dispersi può aver trovato rifugio in qualche fattoria, chiediamo ai due reduci alpini e a Morozov. La risposta è secca: <<No. Sono leggende cinematografiche>>. <<Allora il controllo delle truppe sovietiche – ci spiega la nostra guida russa – era ferreo. Conosco parecchi casi di italiani curati dai russi, ma poi consegnati alle autorità>>

Ogni tanto salta fuori qualche nuovo reperto: per caso, di recente, è stata ritrovata la gavetta del papà del sindaco di Cairo Montenotte (SV), Osvaldo Chebello, che è andato di persona a riprendersela. Nei racconti dei russi il disgelo quell’anno fu terribile: donne e bambini vennero mandati a sotterrare i cadaveri, che, per il timore di malattie, vennero buttati in fosse comuni, ora attivamente ricercate, tra mille difficoltà, dal programma di esumazione governativo italo-russo.

Circa 8mila caduti sono tornati in Italia e riposano nel sacrario di Cargnacco in Friuli.

Seguendo il motto <<ricordare i morti, aiutando i vivi>> gli alpini dell’Associazione nazionale (ANA) hanno costruito a Rossosch tra il ’92 ed il ’93 un asilo per i bambini russi.  L’“operazione Sorriso” ha mobilitato 773 volontari, divisi in 21 turni. Tutto il materiale necessario è stato portato dall’Italia. <<Non vogliamo monumenti – ha detto allora il bergamasco Leonardo Caprioli, presidente dell’ANA -. Coi russi dobbiamo ritrovarci nell’infanzia>>.

Lo studioso: Alim Morozov

Rossosch – Nel Medio Don lo studio della Campagna di Russia prosegue senza intervalli. Il professor Alim Morozov gestisce con grande impegno un museo (il Museo del Medio Don) all’interno dell’Asilo, proprio dove era dislocato il Comando d’Armata alpino durante la Campagna di Russia.  <<Abbiamo organizzato a Rossosch – ci racconta Morozov – una conferenza per il 60esimo anniversario degli eventi del ‘43. Hanno partecipato anche alcuni veterani russi. Invero sono rimasti in pochi, quasi tutte donne: soprattutto infermiere>>.

Mi levi una curiosità, Signor professore. Perché i prigionieri dell’Asse sono stati trasferiti ai campi di concentramento in un primo momento a piedi, con le tragiche marce del “davai” e non con i treni. Dopo tutto Rossosch è un nodo ferroviario strategico. <<Tutti i binari nei territori occupati erano stati cambiati con quelli di misura europea. Erano più stretti (di dieci centimetri) dei nostri a scartamento ridotto. I nostri treni non potevano viaggiare in quelle zone>>.

Però che efficienza, in così poco tempo… <<Le truppe di occupazione hanno utilizzato la popolazione civile ed avevano a disposizione reparti specializzati. Subito, hanno eseguito questo cambiamento ed in alcuni distretti hanno persino costituito nuove reti ferroviarie. Solo in primavera inoltrata (1943) i nostri treni hanno ripreso a viaggiare>>.

Quindi, questa è la vera ragione delle marce del “davai”? <<Nei mesi invernali la movimentazione delle truppe sovietiche d’attacco è avvenuta non per ferrovia. I territori adiacenti a quelli occupati non avevano reti ferrate per centinaia di chilometri>>.

Giuseppe D’Amato

In russo Битва Николаевки

Rada: Il Lager degli Italiani

In russo Ледяной ад Рады

Vedi anche Museo del Medio Don in DonItalia

In italiano Campagna di Russia, 70 anni dopo. Il ricordo nelle terre dove si è combattuto

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Museo del Medio Don – Rossosch

 

 

Rada. Casella postale 188, Unione Sovietica -. L’aria è gelida. Il sole splende, ma non scalda. La neve arriva in certi punti quasi alle ginocchia. Aleksandra Stepanova Krushatina avanza senza indugio in questa foresta fittissima di querce e di pini. Malgrado i suoi 79 anni, il passo è sicuro, grazie anche ai “valienki” neri, tipici stivaloni russi di feltro, che ha ai piedi. <<Ecco, i prigionieri di guerra dormivano lì>>, ci indica rossa in volto per il gelo, dopo cinque minuti di passeggiata, un fossato pieno di neve, dove sono ancora visibili dei pali piantati nel terreno. Qui, a sei chilometri dal lager, si fermava per la notte una delle tante squadre che tagliavano le querce, il cui legno serviva all’Armata rossa per costruire ponti o veniva utilizzato nelle miniere del bacino carbonifero del Donbass in Ucraina orientale.

 Sessanta anni fa avveniva in Russia il più grande disastro della storia militare italiana e la maggiore ecatombe di nostri soldati di tutti i tempi. In tre fasi, tra il novembre ’42 ed il gennaio ’43, l’esercito sovietico circondò e mise fuori combattimento le truppe dell’Asse a Stalingrado e sul Don. Solo parte del Corpo d’armata alpino riuscì a ripiegare, rompendo l’accerchiamento a Nikolajewka il 26 gennaio ’43. L’avventura dell’Armir finiva lì, col successivo rimpatrio in primavera: secondo dati sovietici, in quei terribili mesi, morirono combattendo o di stenti circa 25mila soldati italiani, mentre approssimativamente 70mila furono fatti prigionieri. Per quest’ultimi iniziò un’odissea infernale. Solo 10.030 di loro tornarono a casa tra la fine del ‘45 ed il ’54.

 <<Non capivamo cosa dicevano i prigionieri. Ce ne erano di tutte le nazionalità>>, racconta Aleksandra, ancora molto lucida nei suoi ricordi, nella sua isba di legno, arredata come se il tempo non fosse mai passato. Alcuni prigionieri in divise gialle” lavoravano con la popolazione civile. <<Ma perché dovevano scappare? E poi dove? Dopo tutto avevano da mangiare>>, dice la donna seduta vicino ad alcune immagini sacre. <<I rapporti con loro – aggiunge Aleksandra – erano buoni: vi era anche un piccolo commercio di oggetti che venivano scambiati per cibo>>. Episodi particolari? <<Una volta ero con la mia amica Julia vicino alla stazione. Alcuni dei prigionieri ci gridavano in russo di avvicinarci ai vagoni. Volevano abbracciarci e proponevano di baciarci. Dopo tutto anche loro erano dei ragazzi giovani>>.

 L’ecatombe per gli italiani si ebbe nei primi 6 mesi di prigionia. La mancanza di ferrovie a scartamento ridotto obbligò i sovietici a sgomberare a piedi i prigionieri per centinaia di chilometri su strade innevate durante la stagione dei “morozy” (gelo) con temperature glaciali. Tanti sono i racconti tragici dei nostri sopravvissuti delle “marce del davai (in russo: forza, avanti)”, che si portarono dietro una spaventosa scia di sangue con soldati esausti, morti per la fame e gli stenti, o fucilati dalle guardie sovietiche. Una volta giunti alla ferrovia, i prigionieri venivano stipati come sardine in vagoni bestiame. Il viaggio durava giorni o settimane con scali eterni, quasi senza cibo ed acqua. Quando il treno raggiungeva i campi di smistamento e venivano aperti i vagoni piombati, erano più i morti che quelli rimasti vivi.

 E’ proprio in questa foresta che verso il Natale del ’42 arrivarono, mezzi congelati e vestiti di cenci, i primi fanti dell’Armir, riempiendo uno dei più grandi campi di concentramento dell’Urss, il lager 188 di Rada, nei pressi di Tambov, circa 480 chilometri a sud-est di Mosca. Accanto alla stazioncina ferroviaria c’è la prima fossa comune.

 In sei mesi, dal dicembre del ’42 entrarono a Rada 24mila prigionieri, di cui 10.118 italiani. Il lager non era attrezzato per accogliere tanti uomini, gli stessi carcerieri dormivano in ricoveri di fortuna. La mortalità era altissima: 1.464 a gennaio, 2.581 a febbraio, 2.770 a marzo. In 10 mesi sono state registrate 14.433 morti. La percentuale dei deceduti fra gli italiani del campo 188 è spaventosa: oltre il 70%.

 I racconti dei sopravvissuti di quel periodo sono semplicemente agghiaccianti: fame, freddo, malattie. Mancava tutto, fino alle cose più elementari. Le risse per un pezzo di pane erano frequentissime. I morti non venivano nemmeno sepolti, così gli uomini del bunker avevano una porzione in più da mangiare. L’abbrutimento era completo. Il lager diventò presto un letamaio ed un lazzaretto: la dissenteria faceva strage insieme al tifo petecchiale. I pidocchi non davano tregua e non si riusciva in nessun modo a debellarli.

 Il campo di concentramento di Rada venne creato alla fine del ’41: i sovietici avevano bisogno di un luogo per filtrare i propri soldati o partigiani “liberati”, sospettati di collusione col nemico per il solo fatto di essere stati catturati. I prigionieri vivevano in specie di bunker, grandi buche nel terreno (13 metri per sette) e una tettoia appena fuori terra, in grado di ospitare 80 uomini. Col tempo, il campo si allargò e le condizioni di vita decisamente migliorarono. Si riuscirono a celebrare persino le Sante messe a Pasqua e Natale. Nel ’47 Rada venne chiusa. <<Probabilmente per un litigio tra Stalin ed il generale De Gaulle – sostiene la nostra guida, Evghenij Pisarev -. E’ qui che erano tenuti prigionieri gli alsaziani e i loreni che Hitler aveva reclutato con la forza. Alcuni di loro furono spediti a combattere in Africa>>.

 L’Nkvd, la polizia segreta sovietica, distrusse il campo, cancellando ogni traccia, e la zona rimase chiusa, segreta, anche per la presenza nelle vicinanze di un poligono di tiro. <<Dimenticate!>> fu l’ordine impartito dalla Lubjanka. Tutte le cartelle personali dei prigionieri di Rada furono spedite all’Archivio militare di Mosca, dove rimangono gelosamente custodite. Ed <<è quasi impossibile consultarle – mette in chiaro lo storico moscovita Nikita Okhotin, che ha condotto studi sui comunisti italiani uccisi da Stalin -. Il ministero della Difesa italiano ha comunque ricevuto, agli inizi degli anni Novanta, delle microfiche con alcuni elenchi dei vostri militari>>.

 Elenchi che sono purtroppo in cirillico ed i cognomi sono difficili da decifrare e spesso non corrispondono a quelli dei soldati dell’Armir. A Tambov, città famosa per i lupi, all’archivio regionale è rimasto un fondo, dimenticato dal solito pressappochismo russo. <<Vi sono 44 cartelle con dati generali: ordini, elenco di materiale ed equipaggiamento. Le ritrovammo per caso intorno al 1990>>, ci dice l’archivista Tatjana Krotova, che ci mostra anche il rapporto sulla cattura di due fuggiaschi italiani, Felice Celoti (classe 1918) – classificato come antifascista – ed Angelo Calzani (1920), arrestati a 25 chilometri da Rada.

 Avanziamo tra la neve, alta un palmo, nel cimitero memoriale, inaugurato nell’agosto ’98, sul lato esterno del campo. Dopo decenni la memoria ha avuto finalmente il sopravvento sull’oblio. E lo storico pellegrinaggio di Carlo Azelio Ciampi, il 29 novembre 2000, ha contribuito enormemente a ricordare quei tragici anni. I cittadini di Tambov non dimenticano e parlano del presidente italiano con grande ammirazione. <<Qui – sottolinea Pisarev – non è mai venuto nessuno: né Eltsin né Putin né altri leader stranieri. Il vostro presidente sì>>. Il futuro capo dello Stato fu mandato nell’autunno ’42 a combattere in Albania nel corpo degli autieri, ma avrebbe potuto essere dirottato in Russia, proprio quando il fronte del Don crollava.

 E’ l’una. La temperatura è ben oltre i 20 gradi sottozero. Insomma sono le stesse condizioni climatiche trovate dai nostri militari 60 anni fa. Vi sono vari cippi commemorativi a ricordo delle migliaia di soldati, appartenenti a 29 nazionalità differenti (molti erano anche alleati dei sovietici: inglesi, americani, polacchi!), passati per Rada o sepolti qui intorno nelle gigantesche fosse comuni. Qui riposano per sempre tra 10 e 15mila nostri ragazzi. Di molti di loro non si conosce nemmeno il nome.

 Scopriamo dalla neve il cippo italiano. Il luogo lascia il visitatore senza parole ed incute commozione. Nella mente tornano le parole pronunciate da Ciampi a Tambov nel 2003: <<Gli Stati multietnici sono uno scudo contro le barbarie. Se non si tiene viva la memoria ogni cosa terribile del passato può tornare a ripetersi>>.

 Il personaggio: Pisarev

Tambov – <<Spesso non c’è una logica>>. Evghenij Pisarev è il massimo studioso russo del campo di Rada. La sua curiosità l’ha frequentemente messo nei guai soprattutto con l’omertoso potere sovietico locale, a metà degli anni Ottanta. La verità doveva, però, venire a galla ed il suo contributo è stato rilevante. <<Secondo me – afferma il 56enne giornalista, autore di un libro sul campo 188, – nelle fosse comuni di Rada ci sono almeno 50-60mila morti. Ufficialmente ce ne sono molti meno, ma quei documenti non sono veritieri. Per coprire l’alta mortalità, l’Nkvd diede ordine di utilizzare la dicitura “trasferito”>>.

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Pisarev davanti all’archivio di Tambov

 

La presenza dei nostri militari è stata segnalata in oltre 400 lager dislocati su tutto il territorio sovietico. Continue furono le loro peregrinazioni, quasi senza senso, per l’Urss: dalla gelida Siberia all’afoso Uzbekistan, dal confine cinese all’Ucraina. Ai soldati dell’Armir, catturati sul Don, bisogna aggiungere anche i nostri militari, fatti prigionieri dai tedeschi su altri fronti e “liberati” dall’Armata Rossa, ma finiti nei campi di concentramento di Stalin. In totale, dai dati del Commissariato del ministero interno dell’Urss, dai 5mila luoghi di detenzione passarono 6 milioni di persone provenienti da 30 Paesi.Nell’inverno ’42 i sovietici non erano assolutamente pronti a dover gestire in poche settimane ben mezzo milione di prigionieri. Vi era in loro una volontà distruttiva sui vinti? <<No – dice Pisarev -. Non c’è mai stata. Ad esempio, il lasciare giornate intere i treni fermi sui binari con la gente pigiata nei vagoni senza cibo ed al gelo è un elemento tipico del solito casino russo, della disorganizzazione, del menefreghismo. L’unica attenuante è la guerra>>. I prigionieri stranieri hanno provato sulla propria pelle, né più né meno, quello che vivevano quotidianamente i cittadini sovietici. Ed è andata loro ancora bene. <<Non bisogna dimenticare – continua il nostro interlocutore, spesso balbettando, – che, negli anni Trenta, Stalin ha ucciso forse 20 milioni di persone. I prigionieri sovietici dei tedeschi, una volta nelle mani dell’Armata Rossa, sono finiti nei lager. Molti sono stati fucilati come traditori>>. Perché ci sono stati così tanti morti fra i militari italiani? <<Siete gente del sud – sostiene Pisarev -, non abituati al nostro clima ed alla nostra alimentazione. Per di più senza nemmeno il vestiario adatto. Hitler è stato un pazzo a volere gli italiani in Russia. Per fortuna la popolazione locale vi ha ben accolto ed aiutato, altrimenti quei poveracci morivano tutti>>.

Testimoni scomodi

 Tambov – Basta visitare il sito Internet dell’Associazione nazionale reduci di Russia per capire il perché l’Italia ha sempre cercato quasi di minimizzare la tragedia di 60 anni fa: non si volevano aprire ulteriori ferite. Poco chiaro è, infatti, il ruolo avuto dai fuoriusciti italiani sia nei campi di detenzione sia a Mosca, nel perorare la causa dei propri connazionali presso il potere sovietico. Alcuni di loro sono stati deputati e senatori della Repubblica nel dopoguerra. I francesi hanno messo da parte le dispute ideologiche passate, riuscendo a farsi un quadro preciso della tragedia in Russia con tanto lavoro negli archivi. Gli italiani, invece, non ancora. Il quindicennale “L’Alba” e Radio Mosca sono stati a lungo per i nostri prigionieri l’unico mezzo per sapere cosa succedeva nel mondo. Nei campi si trovavano solo pubblicazioni e libri comunisti in italiano. <<Nei lager – ci spiega Pisarev – vi erano agenti infiltrati, che cercavano potenziali futuri adepti da mandare alla scuola antifascista di Mosca e poi all’estero>>.

 Nelle cartelle personali vi era la voce sull’appartenenza politica e non erano pochi i documenti, ancora in archivio, in cui i sovietici segnalavano il numero dei militari convertiti o potenzialmente sulla via della conversione e gli agenti attivi. Da una nota del libro di Pisarev: <<Situazione al 1° ottobre 1944: (a Tambov) 4522 antifascisti, in particolare tra gli italiani 1700; tra loro attivi 42. Domande per la formazione per la lotta antifascista: tra gli italiani 1940 soldati, di cui 4 sono ufficiali>>. <<Secondo me, però, – sostiene il giornalista di Tambov – sono cifre inventate>>.

 La caduta del fascismo, il 25 luglio ’43, e l’8 settembre cambiarono molte delle convinzioni politiche dei nostri prigionieri. Il problema era, come scrive Carlo Vicentini in un suo libro, che <<non bastava essere antifascisti, bisognava essere comunisti>>. <<I contrari – aggiunge Vicentini al telefono – venivano isolati dall’Nkvd. A parte i capi, i commissari politici italiani erano dei poveracci. Spesso erano reduci della guerra di Spagna. Erano gli unici che parlavano l’italiano ed avevano il compito di fare propaganda. All’epoca del fascismo noi non sapevamo niente di cosa avvenisse al di fuori nel mondo. I sovietici non ci dovevano, però, obbligare a cambiare idea>>. A volte avvenivano lunghi interrogatori e nei campi era segnalata la presenza di delatori fra i nostri militari.

 I soldati vennero rimpatriati alla fine del ’45, mentre gli ufficiali, per ragioni politiche, ben dopo lo svolgimento del referendum del giugno ’46. L’opinione pubblica italiana era rimasta scossa dai racconti sulla prigionia in Urss dei primi sopravvissuti arrivati in Patria. Gli ultimi 28, rei non si di che cosa, furono liberati soltanto nell’inverno ’54.

 Giuseppe D’Amato

Vedi anche:
* Nikolajewka: la tragedia del Don
* DonItalia
* Museo del Medio Don – Rossosch

Rada Zona Monumentale

Ciampi

 

Luglio 2009

 Un tempo le guerre tra Stati si combattevano sui campi di battaglia adesso sui mercati internazionali. E’ sintomatica la vicenda per la costruzione del gasdotto Nabucco. Questa pipeline dalla capacità conclusiva di 31 miliardi di metri cubi di metano l’anno ha l’obiettivo di trasportare il gas del mar Caspio fino al cuore del Vecchio Continente, evitando il territorio russo. L’opera lunga ben 3300 chilometri – duemila dei quali in Turchia – costerà l’astronomica cifra di 8 miliardi di dollari.

 Alla cerimonia per la firma ad Ankara per la costituzione del Nabucco erano presenti tra gli altri il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso ed un alto rappresentante statunitense per l’Energia. Sia Bruxelles che Washington spingono per incrementare la concorrenza alla Russia, che attualmente fornisce circa il 30% del fabbisogno annuale all’Unione europea.

 Al Cremlino tutto ciò non fa chiaramente piacere. Mosca ha ribadito, non solo a parole, di essere un partner affidabile ed ha dato il via alla costruzione di due faraonici gasdotti – uno sotto al mar Baltico (insieme ai tedeschi) e l’altro sotto al mar Nero (con l’italiana Eni) per aggirare gli ostacoli ucraino e bielorusso che, negli ultimi tempi, avevano creato problemi alle forniture all’Europa.

 Il dubbio degli specialisti è, però, un altro: dove accidenti sia i russi che gli europei troveranno la materia prima per così tante condotte nuove oltre a quelle già esistenti. Il Cremlino finora ha giocato d’anticipo: ha acquistato gran parte della produzione del Turkmenistan, che si appresta a rifornire anche la Cina ed il Nabucco (10 miliardi). Stesso discorso per l’Azerbaigian (8 agli europei): due settimane fa il presidente Medvedev ha siglato con Bakù un’analoga intesa per cospicui approvvigionamenti.

 In linea teorica i fornitori del Nabucco dovrebbero essere anche Iran, Iraq e Kazakhstan. Teheran sta vendendo all’estero una grossa fetta di produzione al nero per aggirare le sanzioni: la difficile situazione politica interna non depone poi a favore del consorzio europeo; Baghdad sta muovendo i primi passi per rilanciarsi sui mercati internazionali dopo 6 anni di guerra; Astanà ha una politica multivettoriale, ma difficilmente entrerà in rotta di collisione con Mosca.

 L’inizio della costruzione della pipeline europea è posto nel 2010 mentre la conclusione nel 2014. Resta da definire la quantità che la Turchia tratterrà per i vari diritti di transito. Per settimane le discussioni non hanno portato ad alcunché come a lungo non si è capito chi fossero i veri finanziatori del progetto rimasto per anni in naftalina.

 Per gli europei il Nabucco è uno dei modi per cementare l’amicizia con Ankara. Se proprio non si riesce a farla aderire all’Ue che si facciano perlomeno dei buoni affari. Per ora non importa che tutto quel gas non esiste nemmeno nei sogni del più incorreggibile ottimista!

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