All Italiano posts


kazancortile

Kazan, all’interno del cortile. A sinistra Dmitrij Khafizov

 Kazan. Un praticello all’interno di un cortile. Dei camion in manovra. Una fabbrica di tabacco. Proprio in questo rettangolo verde così trascurato è stata trovata l’icona della Madonna di Kazan, dopo un incendio spaventoso, nel giugno del 1579. E sempre qui sorgeva la chiesa, fatta saltare in aria dai bolscevichi, che, per secoli, ha conservato la sacra opera. 

Già ora arrivano i pellegrini, ci raccontano, ma restano fuori dalla porta non avendo il permesso d’entrata nel complesso industriale.

 Quella della Madonna di Kazan è la più famosa icona del mondo, quella maggiormente venerata dagli ortodossi russi, quella che rappresenta anche la riappacificazione tra le varie confessioni religiose.

 “Qui nei piani – ci dicono fonti della locale diocesi – vi è il progetto di costruire un santuario mariano, aperto anche ai musulmani, che da sempre la tengono in grande considerazione. A Kazan, terra oggi di convivenza pacifica tra cristianesimo ed Islam, la Vergine Maria apparve per la prima volta in Europa e sono tante le coincidenze con Lourdes”.

 La città tatara in riva al Volga era stata conquistata 7 anni prima da Ivan il terribile, quando una bambina povera di nome Matrona vide la Madonna, che le indicò dove si trovava l’icona, salvatasi miracolosamente sotto un cumulo di ceneri, non lontano dal locale Cremlino, fortezza. In segno di ringraziamento, il principe moscovita fece costruire una chiesa ed un monastero femminile, dove l’opera venne tenuta fino al 1904, quando venne rubata.

 

L'icona vaticana

L'icona vaticana

Secondo il giornalista Jurij Frolov, che, per 20 anni, ha studiato negli archivi, l’icona originale venne distrutta dai ladri che si impadronirono solo dei gioielli dell’intarsio. “Vi sono gli atti del processo – asserisce Frolov -. Parte della refurtiva fu ritrovata. L’icona, invece, venne bruciata nella speranza di farla franca”.

 Ma in Russia, prima della rivoluzione del 1917, esistevano, oltre all’originale altre tre icone sacre della Madonna di Kazan (probabilmente delle copie), ugualmente venerate e miracolose. Sono andate tutte perse, cancellate dalla furia comunista.

 I luoghi di culto, dove esse erano conservate, sono stati distrutti. A Kazan, come detto, i bolscevichi vi hanno costruito una fabbrica di tabacco; a Mosca è stata edificata una toilette pubblica sulle fondamenta della chiesa; a San Pietroburgo è sorto il museo dell’ateismo.

L’icona vaticana riemerse dalle tenebre della storia negli anni Cinquanta in Gran Bretagna. Fu promesso allora di restituirla alla Russia solo quando il comunismo fosse finito. Curiosa la coincidenza: 1904 (anno del furto) – 1917 (rivoluzione d’ottobre); 1991 (crollo Urss) – 2004 (riconsegna). Esattamente 13 anni.

 L’icona venne acquistata dall’organizzazione cattolica “Blue Army” e custodita a Fatima dal 1970 al marzo del ‘93, quando fu consegnata a Papa Giovanni Paolo II. Non si dimentichi che uno dei segreti di Fatima riguardava proprio la Russia.

 “E’ un’icona dipinta non più tardi dell’inizio del 18esimo secolo”, afferma Dmitrij Khafizov, membro di uno dei gruppi di esperti, incaricato delle perizie. “Non è nessuna delle 4 sacre conosciute – continua Khafizov -, ma fa ugualmente i miracoli. Ed è la più preziosa finora ritrovata”.

 Gli specialisti hanno a lungo discusso. Ma non sanno dire con certezza da dove sia saltata fuori l’icona vaticana. “Non è nemmeno la quarta icona sacra – afferma Khafizov -, quella detenuta dalla famiglia imperiale, Romanov. Le dimensioni sono diverse. Tuttavia, per il gran numero di gioielli preziosi dell’intarsio, si può dire che solo uno zar o dei principi potevano portare in dono simili pietre”. Frolov, invece, è convinto che questa icona sia quella scomparsa dal monastero di Serafimo-Diveeskij non lontano da Nizhnij Novgorod.

 Polemicamente, il Patriarcato di Mosca ha segnalato che l’icona vaticana è soltanto una copia e l’evento della riconsegna non è così importante. I rapporti tra le due Chiese sono tesi da anni. “E’ solo politica. Tutte le icone sono delle copie – spiega Khafisov -. Se il Patriarca, il Papa ed il presidente Putin hanno a cuore il ritorno dell’icona ci sarà pure una ragione. Che siano gli specialisti a dire la loro!” Ma attenzione rimarca Aleksandr Pavlov segretario della diocesi di Kazan “questa icona è il simbolo della rinascita spirituale del Paese”.

Giuseppe D’Amato

 

Estate 2004

 

 

  Sessant’anni da quel terribile 1945. Il mondo ricorda. Vecchie ferite si riaprono immancabilmente, mentre tornano alla mente tragedie passate. L’Europa centro – orientale inizia a fare i conti liberamente con la storia ad un quindicennio dalla dissoluzione del comunismo. Troppe le pagine volutamente dimenticate o mistificate che spingono verso la riscoperta della memoria collettiva.

 “Diciamo oggi una volta per tutte – ha ammonito il presidente russo Vladimir Putin ad Auschwitz in gennaio – che ogni tentativo di riscrivere la storia, cercando di mettere sullo stesso piano vittime e boia, liberatori ed occupanti, è amorale e non compatibile con la coscienza della gente, che si considera europea”.

 La Seconda guerra mondiale sul fronte est è stato un inferno e le sue conseguenze sono cessate solo nel 1989 col crollo del Muro di Berlino. Se vincitori e vinti del conflitto si sono alla fine riconciliati, un solco profondo rimane ancora oggi tra i russi e i popoli caduti nell’oblio, sotto il tacco di Stalin. Estoni, lettoni, lituani, polacchi, cechi, slovacchi, ungheresi dovettero sopportare, per mezzo secolo, chi la dominazione sovietica chi un regime politico altrui.

 Dopo lo scioglimento dell’Urss due emigranti di quegli anni bui, il lituano Valdas Adamkus e la lettone Vaira Vike-Freiberga, sono tornati in Patria ed adesso ne sono diventati capi di Stato. Nei Paesi baltici è forte la volontà di scoprire la verità, di ricostruire i legami con chi è stato deportato in Siberia. Nel novembre ‘98 la presidenza della repubblica lettone ha costituito un Comitato di storici (locali ed internazionali) per studiare il periodo contemporaneo: le due occupazioni tedesca e sovietica. Tanti sono i volumi già pubblicati.

 Quanto sia stato tribolato il Ventesimo secolo a quelle latitudini balza subito agli occhi. A Riga il museo dell’Occupazione si trova proprio davanti al monumento ai fucilieri lettoni, una delle divisioni d’élite dell’esercito zarista durante la Prima guerra mondiale, che passarono con armi in pugno con i bolscevichi e diventarono tra i più ferrei difensori della Rivoluzione d’ottobre.

Lettonia prof. Vestermanis

Lettonia prof. Vestermanis

 Se si visita la Sinagoga della capitale lettone si odono i racconti dei sopravvissuti, che confermano che i criminali di un tempo non erano solo di nazionalità germanica. Accusa confermata anche ufficialmente. “Tra le Waffen SS lettoni, le unità collaborazioniste create dai tedeschi con militari locali, vi erano anche molti assassini”, conferma Margeris Vestermanis, storico prestigioso, sfuggito alla morte miracolosamente in quegli anni terribili. “E’ stata la pubblicistica – continua uno dei componenti della Comitato statale – a creare il mito dei combattenti lettoni per la libertà, gente che aiutò gli Alleati anglo-americani. Nessuno dei contendenti aveva promesso l’indipendenza della Lettonia”. Nell’autunno 2003 il rabbino capo di Russia, Berl Lazar, ha chiesto un intervento del premier israeliano Sharon sui governi baltici contro le mistificazioni storiche.

 Estonia, Lettonia e Lituania sono rimasti stritolati tra Hitler e Stalin ed hanno visto nel 1940 la loro sovranità sfumare. Allora in molti scelsero di combattere contro l’Urss, anche dopo la fine del conflitto nelle foreste. “Nessuno giudica mai il vincitore”, sostiene Nikolajs Romanovskis, presidente dell’Associazione dei soldati nazionali lettoni che aggiunge “noi abbiamo scelto i tedeschi perché erano i nemici del comunismo. Erano amici solo per quel momento. Dovevamo combattere un nemico che aveva già deportato ed ucciso parte del nostro popolo”.

 Ogni volta che in Estonia e Lettonia si discute di innalzare un monumento ai legionari delle Waffen SS scoppiano le polemiche. Nel 2002 a Parnau venne installato un busto in ricordo dei morti estoni per la libertà. Il militare raffigurato, però, aveva le insegne delle SS. Dopo pochi giorni il busto è stato prontamente levato.

 Allo stesso tempo, in Estonia e Lettonia sono cominciati i processi contro gli ex partigiani dell’Armata rossa, alcuni dei quali sono finiti in galera per aver compiuto crimini durante la guerra. Pesanti sono state le critiche del Cremlino. Per il cittadino comune russo i baltici sono solo dei “semplici fascisti”.

 Dinamiche assai simili, ma meno rimarcate di quelle baltiche, con lo scopo di recuperare la “memoria perduta”, si osservano anche in Ucraina occidentale ed in Polonia. Le due comunità sono assai influenti in Canada e negli Stati Uniti. Gli ucraini all’estero hanno dato un sostanzioso contributo alla “rivoluzione arancione” del neo presidente Jushenko, che, da anni, spinge verso la riscoperta dei simboli nazionali. Il suo predecessore, Leonid Kuchma, era stato il regista della riappacificazione con i polacchi per i massacri di Volinia con centinaia di migliaia di morti inermi nel ‘43.

 Sulle relazioni russo – polacche pesa ancora come un macigno l’eccidio di Katyn, oltre 20mila militari di Varsavia, prigionieri di Mosca e trucidati a sangue freddo dall’NKVD, il progenitore del Kgb. Putin ha consegnato al collega Kwasniewski parte dei documenti rinvenuti negli archivi. Manca, però, ancora un atto simbolico.

 Dopo le accese polemiche per la crisi politica in Ucraina il capo del Cremlino è stato il principale ospite al 60esimo anniversario per la liberazione di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche. Kwasniewski ha sottolineato più volte il sacrificio delle centinaia di migliaia di russi morti per la liberazione della Polonia dai nazisti. Se nell’immaginario collettivo dei russi i polacchi restano degli amici, in alcuni ambienti di Varsavia i russi sono visti come una minaccia alla libertà del proprio Paese.

Una spinta necessaria per un futuro migliore

 In Europa centro-orientale, quando si discute del passato, si litiga quasi su tutto. “Certo – ha velenosamente polemizzato a distanza con Putin il presidente lettone Vaira Vike-Freiberga –, noi non tenteremo di convincere e non cambieremo la coscienza di quegli anziani russi che il 9 maggio avvolgeranno il pesce essiccato nel giornale, berranno la loro vodka e si metteranno a cantare canzoni popolari di bassa lega ed insieme ricorderanno come loro eroicamente conquistarono il Baltico”. Per il ministero degli Esteri di Mosca in Lettonia “i sentimenti di revanchismo storico sono attivamente sostenuti anche dalle più alte cariche statali”.

 Riga ha pubblicato un volume dal titolo Storia della Lettonia: il 20esimo secolo, che la Freiberga ha regalato a Putin. Polemiche a parte, il presidente lettone – unico tra i capo di Stato baltici – ha già reso noto che il 9 maggio, giorno dei festeggiamenti per la fine della “guerra patriottica”, sarà sulla Piazza rossa a Mosca insieme a tutti i maggiori leader mondiali. Il Parlamento di Riga appoggia le scelte presidenziali.

Lettonia Commissione storici

Lettonia Commissione storici

 “Oltre a commemorare chi perse la vita durante la guerra – si legge in un messaggio della Freiberga al Paese – non dobbiamo dimenticare i crimini contro l’umanità commessi sia da Hitler che da Stalin. Per la Lettonia, l’inizio della fine della Seconda guerra mondiale giunse molte decadi dopo, il 4 maggio 1990, insieme con il crollo dell’impero sovietico e la restaurazione dell’indipendenza nazionale dopo 50 anni di occupazione… La Lettonia invita la Russia a condannare il patto Ribbentrop – Molotov e i crimini del totalitarismo”.

 Nel ’39 sovietici e tedeschi si spartirono l’Europa centro – orientale e le conseguenze di quell’atto sono state pagate a duro prezzo dai popoli della regione. In un incontro a Mosca il presidente estone Ruutel ne ha parlato con Putin. “Al momento solo una valutazione storica è possibile – ha dichiarato l’ufficio stampa del Cremlino -. Non c’è possibilità di una valutazione giuridica per le realtà correnti”. Russia ed Estonia hanno problemi di demarcazione dei confini ancora non risolti. Ruutel ha raccontato che Putin si è impegnato a considerare nullo il patto di non aggressione del 1939. Il 9 maggio, forse, vi potrebbe essere l’annuncio ufficiale nel tentativo di iniziare un vero corso di riconciliazione.

 E ce ne sarebbe un gran bisogno visto la situazione dei russofoni nel Baltico e degli scontri continui Ue – Russia: dichiarazione improvvida sulla tragedia di Beslan e crisi Ucraina, soprattutto.

Ingombranti simboli del passato

 Ma perché solo la svastica e i simboli del nazismo? E’ polemica al Parlamento europeo, dove i deputati dell’Europa centro – orientale hanno chiesto di includere anche la falce ed il martello tra ciò che deve essere vietato. “C’è un doppio standard nel trattamento delle ideologie di estrema destra e di estrema sinistra” in Europa, hanno accusato il centrista di destra ungherese Jozsef Szajer ed il lituano Vytautas Landsbergis. “Persino oggi manchiamo di un giudizio del passato totalitario comunista”, ha rincarato la dose l’estone Tunne Kelam.

 Il commissario alla Giustizia, Franco Frattini, non ha, però, accolto le osservazioni. Un suo portavoce ha segnalato la volontà di differenziare simboli nazisti da quelli sovietici. La norma di divieto della svastica è inserita nella legge contro il razzismo e la xenofobia. Il dibattito politico sui simboli nazisti è iniziato dopo che il principe britannico Harry aveva indossato ad una festa un vestito con simboli nazisti.

 Anche nell’ex Urss, tuttavia, ci si pone il problema delle statue dedicate a Stalin. Se fino al ’91 ne si poteva vedere una a Gori, città natale del “padre dei popoli”, adesso alcuni monumenti sono stati innalzati, non senza critiche, in Russia, dove, da quasi un anno, ci si sta preparando attivamente alle celebrazioni per la sfilata della vittoria sulla Piazza rossa.

 Non così, ai primi di febbraio, a Yalta, dove si è ricordata la Conferenza che definì il destino dell’Europa per mezzo secolo. Niente, se non qualche foto al palazzo Livadisky, ha ricordato il dittatore georgiano. Il potere stalinista, secondo alcuni calcoli, ha provocato più lutti in Urss che la Seconda guerra mondiale (27 milioni). I tatari crimeani, deportati in Siberia, hanno minacciato disordini. Le autorità locali hanno preferito dare risalto alla statua dedicata al presidente statunitense Roosevelt, una delle più grandi mai erette.

Giuseppe D’Amato

Luglio 2009

 Un tempo le guerre tra Stati si combattevano sui campi di battaglia adesso sui mercati internazionali. E’ sintomatica la vicenda per la costruzione del gasdotto Nabucco. Questa pipeline dalla capacità conclusiva di 31 miliardi di metri cubi di metano l’anno ha l’obiettivo di trasportare il gas del mar Caspio fino al cuore del Vecchio Continente, evitando il territorio russo. L’opera lunga ben 3300 chilometri – duemila dei quali in Turchia – costerà l’astronomica cifra di 8 miliardi di dollari.

 Alla cerimonia per la firma ad Ankara per la costituzione del Nabucco erano presenti tra gli altri il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso ed un alto rappresentante statunitense per l’Energia. Sia Bruxelles che Washington spingono per incrementare la concorrenza alla Russia, che attualmente fornisce circa il 30% del fabbisogno annuale all’Unione europea.

 Al Cremlino tutto ciò non fa chiaramente piacere. Mosca ha ribadito, non solo a parole, di essere un partner affidabile ed ha dato il via alla costruzione di due faraonici gasdotti – uno sotto al mar Baltico (insieme ai tedeschi) e l’altro sotto al mar Nero (con l’italiana Eni) per aggirare gli ostacoli ucraino e bielorusso che, negli ultimi tempi, avevano creato problemi alle forniture all’Europa.

 Il dubbio degli specialisti è, però, un altro: dove accidenti sia i russi che gli europei troveranno la materia prima per così tante condotte nuove oltre a quelle già esistenti. Il Cremlino finora ha giocato d’anticipo: ha acquistato gran parte della produzione del Turkmenistan, che si appresta a rifornire anche la Cina ed il Nabucco (10 miliardi). Stesso discorso per l’Azerbaigian (8 agli europei): due settimane fa il presidente Medvedev ha siglato con Bakù un’analoga intesa per cospicui approvvigionamenti.

 In linea teorica i fornitori del Nabucco dovrebbero essere anche Iran, Iraq e Kazakhstan. Teheran sta vendendo all’estero una grossa fetta di produzione al nero per aggirare le sanzioni: la difficile situazione politica interna non depone poi a favore del consorzio europeo; Baghdad sta muovendo i primi passi per rilanciarsi sui mercati internazionali dopo 6 anni di guerra; Astanà ha una politica multivettoriale, ma difficilmente entrerà in rotta di collisione con Mosca.

 L’inizio della costruzione della pipeline europea è posto nel 2010 mentre la conclusione nel 2014. Resta da definire la quantità che la Turchia tratterrà per i vari diritti di transito. Per settimane le discussioni non hanno portato ad alcunché come a lungo non si è capito chi fossero i veri finanziatori del progetto rimasto per anni in naftalina.

 Per gli europei il Nabucco è uno dei modi per cementare l’amicizia con Ankara. Se proprio non si riesce a farla aderire all’Ue che si facciano perlomeno dei buoni affari. Per ora non importa che tutto quel gas non esiste nemmeno nei sogni del più incorreggibile ottimista!

Mosca. “L’Ossezia è indivisibile” recita un’enorme cartellone all’ingresso dell’ex repubblica separatista georgiana. Di tornare sotto l’egida di Tbilisi manco a parlarne. Il sogno della gente di Tskhinvali non è, però, quello di rimanere indipendenti, ma di riunirsi con i fratelli del nord, facendo sventolare sul suo territorio il tricolore russo.
I disastri provocati dai confini, disegnati scriteriatamente in epoca sovietica, prima o poi emergono nella loro gravità. E’ bastato che uno spericolato presidente nazionalista volesse mettere mano allo status quo di una remota provincia separatista che il mondo, nell’agosto di un anno fa, ha rischiato una guerra globale. Quando le navi della Nato sono entrate inaspettatamente nel mar Nero i polsi in molte cancellerie hanno iniziato a tremare. I russi erano a soli 40 chilometri da Tbilisi e parevano non volersi fermare. Per fortuna la ragione, alla fine, ha prevalso, come nel 1962 a Cuba per la crisi dei missili.
Questi spaventosi eventi di dodici mesi fa paiono oggi lontani secoli all’opinione pubblica internazionale. Il cambio della guardia alla Casa bianca e la politica più morbida del Cremlino nel “vicino estero” garantiscono un periodo di riflessione. L’Alleanza atlantica ha scelto di rimandare l’analisi del complesso capitolo sull’adesione alla Nato di Ucraina e Georgia, terre di straordinaria importanza geostrategica.
In Ossezia come in Abkhazia, l’altra regione indipendentista georgiana, la tensione si taglia, però, sempre col coltello. Ai confini le scaramucce sono continue come le reciproche accuse. Dall’Osce all’Ue gli appelli alla calma si sprecano. Tbilisi si sta riarmando e Mosca sta cercando soluzioni alle troppe pecche evidenziate durante l’intervento militare dell’anno scorso. Il negoziato a Ginevra è in vicolo cieco, la ricostruzione viaggia a rilento, migliaia di profughi combattono ogni giorno con una quotidianità diventata impossibile.
Sono bastate elezioni contrastate in Moldova, la settimana passata, per rendersi conto che i contendenti hanno soltanto temporaneamente sotterrato l’ascia di guerra. I sottomarini russi in “navigazione” davanti alle coste statunitensi come durante la Guerra Fredda, proprio in questi giorni dopo decenni di assenza, non sono un bel segnale.
Le priorità adesso sono, comunque, altre in presenza di una pesante crisi economica: “resettare” le relazioni per giungere ad un accordo conveniente per la riduzione dei vecchi arsenali nucleari; unire le forze contro l’acuirsi del pericolo radicale in Asia.
Due questioni centrali rimangono, tuttavia, irrisolte. E’ possibile trovare una linea diplomatica comune e spiegare perché il Kosovo ha ottenuto l’indipendenza mentre l’Ossezia o l’Abkhazia o la Transnistria non hanno tali requisiti? La Russia da partner strategico può diventare un alleato dell’Occidente nell’arco di una manciata di anni? A queste domande serve trovare rapide risposte. In gennaio si terranno tesissime elezioni presidenziali in Ucraina. Il capitolo della Crimea, clamorosamente regalata nel 1954 da Nikita Chrusciov a Kiev, è già sulla bocca di alcuni politici russi.
Altri nodi stanno, quindi, inesorabilmente giungendo al pettine. Non prepararsi in tempo ad affrontarli significa rischiare di finire alla mercè dell’irresponsabile di turno o di logiche malsane e pericolose.

Welcome

We are a group of long experienced European journalists and intellectuals interested in international politics and culture. We would like to exchange our opinion on new Europe and Russia.

Languages


Archives

Rossosch – Medio Don

Italiani in Russia, Ucraina, ex Urss


Our books


                  SCHOLL