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 Un musulmano ed un croato, entrambi moderati, compartiranno insieme ad un falco serbo la presidenza tripartita della Bosnia Erzegovina.  Bakir Izetbegović, figlio del leader musulmano Alija durante la guerra negli anni Novanta, ha già offerto il proprio impegno per una ricerca comune di pace e stabilità. Sulla stessa linea anche Željko Komšić. Ma come ribadito durante la campagna elettorale per le elezioni generali i serbi pensano più alla secessione che al rafforzamento dello Stato. Nebojša Radmanović esprime, però, una posizione meno dura rispetto a quella del premier Milorad Dodik, che ha definito la Bosnia Erzegovnia come un errore della storia e prevede la sua scomparsa nell’arco di qualche anno.

 Gli osservatori internazionali sono rimasti sorpresi dall’inusuale alto numero di schede annullate tra i serbi, quasi il 10% del totale. L’Osce chiede l’apertura di un’inchiesta. Da più parti si levano accuse di brogli.

 L’attuale Bosnia Erzegovina è nata con gli accordi di Dayton del 1995, che posero fine a tra anni e mezzo di guerra con 100mila morti. E’ stata creata una presidenza tripartita per rappresentare i principali gruppi etnici. La popolazione è divisa tra Federazione croato-bosniaca e Republika Srpska. Il sistema politico è straordinariamente complesso. Gli elettori scelgono i rappresentanti soltanto delle proprie entità. Ossia un residente della Republika Srpska non elegge i membri del Assamblea della Federazione di bosniaca, e viceversa. Nei 14 Parlamenti del Paese vi sono 5 presidenti, 13 primi ministri e 700 deputati per una popolazione di appena 4 milioni di persone.

 Il compito dei tre presidenti eletti è assai impegnativo. La crisi economica è pesante (2010, crescita del Pil del +0,5%) e la disoccupazione supera il 40% della forza lavoro. La giungla burocratica viene additata come causa principale della difficoltà per i privati di iniziare proprie attività produttive. Gli obiettivi di aderire all’Unione europea ed alla Nato restano lontani. La pace e la stabilità sono garantite da truppe straniere.

 Bruxelles ha esortato i vincitori delle elezioni di domenica a dimenticare le differenze etniche ed a rilanciare le riforme, che potrebbero rafforzare l’integrazione continentale e garantire un futuro alla popolazione locale. Lo scenario peggiore sarebbe un referendum per la secessione dei serbi o una serie di incidenti che provocarebbero un nuovo conflitto armato.

Hiroshima. “Ho 82 anni, la mia memoria diventa sempre più debole, ma quel giorno non lo dimenticherò mai”. Così ci accoglie Koji Hosokawa in un stanza del Museo della Pace. Lui si è salvato perché si trovava ad 1,3 chilometri dall’epicentro. E’ stato solo ferito dalle schegge. “Quel giorno – continua l’uomo – ha segnato tutta la mia vita. Ho perso mia sorella minore, uccisa dalla bomba. Quello è stato l’evento più triste della mia vita. Per tutti i 65 anni successivi non mi sono mai sentito al massimo moralmente”.  Per la prima volta un rappresentante ufficiale statunitense è stato presente alla cerimonia. Lei ritiene che sia venuto il momento che gli Usa si scusino per Hiroshima?

 “Parte di me pensa che l’America dovrebbe decidersi a compiere questo passo, ma non voglio che Washington si senta costretta a farlo. Chiedo solo rispetto e preghiera per le vittime di questa tragedia. Vorrei anche che ci si decida ad abolire una volta per tutte le armi atomiche”.

 Che sentimenti aveva nell’animo quel terribile giorno?

“Mi sentivo completamente perso. Non capivo cosa stava succedendo. Un caos totale”.

 Sono rimasto sorpreso che, come riporta un manifesto in visione al Museo della pace, il giorno dopo il bombardamento atomico la fornitura dell’energia elettrica riprese e 3 giorni dopo il servizio dei tram nei quartieri periferici della città era in funzione. E’ incredibile l’efficienza giapponese.

“A quel tempo il popolo aveva una eccezionale energia dentro. Ma attenzione. Qui dove c’è oggi il parco vi era un tempo un quartiere pieno di vita con oltre 4mila abitanti. In un secondo è tutto svanito. Se lei si mette qui a scavare trova ancora le ossa dei nostri morti. Qui sotto c’è l’Hiroshima del ’45, una specie di Pompei del 20esimo secolo. La Promotion hall (oggi conosciuta come Cupola o Dome) era un vanto per la città, per la sua bellezza, disegnato da un architetto ceco Jan Letzel. Là dentro sono morti tutti bruciati, erano a poche centinaia di metri dall’epicentro”.

Che tipo di messaggio per le prossime generazioni?

“Le armi atomiche sono il male e non le avremmo dovute mai creare. Molta gente non sa cosa sia successo veramente qui ad Hiroshima sulle persone. Attenzione questa tragedia potrebbe accadere anche a voi ed alle vostre famiglie”.

Giuseppe D’Amato  Fine Parte 2/3. – serie “L’eredità della Seconda guerra mondiale”. 65 anni dopo.

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Tokyo. Non sono poche le questioni, rimaste irrisolte dalla fine della Seconda guerra mondiale, che creano ancora oggi difficoltà nei rapporti tra gli Stati e che cercano ora soluzione. Le scuse degli Usa per i bombardamenti atomici del ’45 sulle città giapponesi e l’uso delle basi militari ad Okinawa sono tra queste nell’agenda nippo-americana come lo è il nodo delle isole Curili con la mancanza della firma di un trattato di pace tra Tokyo e Mosca.

Nel novembre 2009 il presidente Obama, in visita in Giappone, rispose con un secco “no comment” ad una domanda sulle scuse, promettendo, però, di visitare Hiroshima e Nagasaki prima della conclusione del suo mandato. Washington intende comprendere se il Paese del Sol levante può continuare ad essere il suo principale alleato in Asia. Dopo il crollo del partito democratico-liberale, al potere a Tokyo per oltre mezzo secolo, i nuovi governanti nipponici sembrano non più fedeli alla precedente linea politica. La ferita per la presenza delle basi americane sanguina talmente che, in giugno, il premier Hatoyama ha dovuto presentare le dimissioni dopo che era stato costretto ad ammettere che non avrebbe potuto mantenere alcune sue promesse elettorali su Okinawa.

Nel 1951, contemporaneamente al trattato di pace di San Francisco, Usa e Giappone firmarono un accordo di mutua cooperazione e sicurezza, poi perfezionato negli anni, che garantisce il cosiddetto “ombrello americano”. In pratica, alla difesa dell’arcipelago ci pensano i nuovi amici d’oltreoceano, che segretamente – con l’assenso del governo giapponese in violazione della Costituzione locale – hanno dislocato nelle proprie basi armi atomiche. Perlomeno questo è stato reso noto in un dossier pubblicato durante il premierato di Hatoyama.

47mila sono oggi i militari statunitensi, principalmente ad Okinawa, usata negli anni Cinquanta per la guerra in Corea, ed oggi maggiore centro del Pentagono in Asia. Da qui si controlla una larga fetta del continente e soprattutto la Cina. La convivenza tra giapponesi ed americani in queste isole subtropicali da favola non è mai stata facile, ma i soldati a stelle e strisce hanno portato sviluppo e soldi. Nel 2006, per venire incontro alle richieste della popolazione locale, i due governi si sono accordati per ristrutturare, riducendo una delle basi di Okinawa, quella di Futenma, e di trasferirla in parte alla baia di Henoko. Dopo questo momento è iniziata una lunga serie di incomprensioni con una clamorosa dimostrazione di protesta in maggio con migliaia di isolani, che, forse, ce l’avevano più con Tokyo che con Washington.

I sondaggi segnalano che l’opinione pubblica nipponica vorrebbe una ridiscussione degli accordi con gli statunitensi,  pretendendo dai propri rappresentanti meno dipendenza dalla Casa bianca. “Per gli americani – dice Motofumi Asai, presidente dell’Istituto per la pace di Hiroshima, – è naturale che Tokyo sia d’accordo con le proprie decisioni anche perché gli Esecutivi nipponici non hanno mai detto niente”.  “Il neopremier Kan – osserva, invece, Nurushige Michishita dell’Istituto di Scienze politiche – dovrà convincere i giapponesi, ma soprattutto quelli di Okinawa che le truppe Usa sono necessarie per la difesa del Paese, ma non sarà facile”. I lanci missilistici della Corea del Nord e la costruzione della Flotta cinese lo testimoniano

. Anche a queste latitudini la logica “sì, vabbene, ma non nel mio cortile” la fa da padrona. “Ma alle Ryukyu Shoto (tristemente famose per essere stato teatro di una delle battaglie più cruenti della guerra del Pacifico) –  sostiene Koichi Nakano della Università Sophia – altri insediamenti americani non sono benvenuti dalla popolazione locale”.

Okinawa è stata la “Waterloo” di Hatoyama, considerato il “Kennedy dell’Asia”. Dopo le elezioni di medio termine in Usa in novembre Obama dovrà risolvere questa grana non semplice. Nel frattempo, ha mandato in avanscoperta i propri uomini in segno di buona volontà, tra questi l’ambasciatore Roos alle cerimonie per la commemorazione del bombardamento atomico di Hiroshima. E’ stata la prima volta in 65 anni che il governo Usa ha presenziato ufficialmente. Già questo è un passo significativo.

Giuseppe D’Amato – Fine Parte 1/3. – serie “L’eredità della Seconda guerra mondiale”. A 65 anni dalla sua conclusione.

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Il Cremlino sperava in una sua uscita volontaria. 18 anni come sindaco di Mosca sono davvero tanti, servono nuovi politici. Ieri Luzhkov, appena rientrato da una breve vacanza in Austria per il suo 74esimo compleanno, aveva annunciato che non ci pensava proprio a dimettersi. L’unica strada rimasta al presidente Medvedev era quella del licenziamento. In due anni e mezzo il Cremlino ha sostituito ben 25 governatori. Luzhkov sarebbe dovuto rimanere in carica ancora un anno, ma la leadership federale ha ufficialmente “perso fiducia” in lui.

E’ dall’inizio della crisi finanziaria che l’astro del sindaco di Mosca si appanna. Cominciano le critiche contro di lui e la moglie, Elena Baturina, la donna più ricca di Russia.  L’ex deputato liberale Boris Nemtsov si accorge dell’incredibile conflitto di interessi e accusa il sindaco di aver favorito in questi anni la consorte con licenze e sgravi fiscali. Alla Duma è durissimo l’attacco del vice speaker Vladimir Zhirinovskij, che parla addirittura di “sistema mafioso moscovita”. Il Cremlino si allinea a questa linea con la crisi estiva del fumo e degli incendi. Luzhkov è in vacanza e rientra in ritardo, secondo i suoi detrattori. Ad inizio settembre le televisioni federali iniziano a mettere in onda programmi in cui si denuncia l’intreccio colossale di interessi, capitali, cantieri ed appalti della coppia. Il premier Putin è rimasto in disparte sulla querelle, ma sa di aver perso un fedele alleato. “Il presidente ha seguito la legge. I rapporti tra loro non andavano, andavano normalizzati in tempo”, ha spiegato gelidamente il primo ministro.

La campagna per le presidenziali è tremendamente vicina e l’ex primo cittadino di Mosca, forte di una potente macchina da guerra, potrebbe essere un inatteso candidato. La moglie ha, però, già messo le mani avanti. In una recente intervista ha dichiarato che ha la sensazione che qualcuno voglia far fare al marito la stessa fine di Michail Khodorkovskij, a lungo maggior oligarca dell’ex superpotenza e da anni in prigione in Siberia dopo aver sfidato apertamente il Cremlino. La Baturina è conscia che potrebbe adesso iniziare una lunga serie di procedimenti giudiziari.

“Non ho intenzione di vivere all’estero”, è stata una delle prime frasi di Luzhkov dopo aver appreso del suo licenziamento ed aver chiesto l’uscita dal partito del potere “Russia Unita“. C’è un precedente poco rassicurante per Medvedev. Negli anni Ottanta Boris Eltsin, primo segretario del partito comunista nella capitale, fu licenziato dagli apparati, ma venne successivamente eletto leader russo dal popolo.

Autoritario, populista, nazionalista l’ex sindaco di Mosca ha soldi, potere, popolarità e mass media allineati per mettere in crisi il tandem al potere in Russia. Nella capitale ha vinto ben tre elezioni consecutivamente con più del 70% dei voti. Ha concesso favori a uomini d’affari e funzionari, garantito stipendi ad insegnanti e lavoratori municipali, conquistato l’ambiente della cultura con fondi copiosi. A causa di questo sistema compiacente Mosca è stata letteralmente violentata in due decenni soprattutto dal punto di vista architettonico. Impressionante è il numero dei monumenti distrutti per lasciare spazio all’ennesimo centro commerciale di turno. Le strade sono perennemente intasate, poiché mal costruite ed amministrate, e la quotidianità presenta ostacoli continui al cittadino comune. La mazzetta al funzionario di turno, anche per le cose più semplici, è la norma.

Dove erano in questi anni i tanti moralisti che adesso plaudono per questo terremoto politico e per la fine della “piovra” moscovita? Oppure la capitale è stata annientata da un qualcosa di più grande di lei? Il grande merito di Luzhkov è comunque di aver garantito alla megalopoli stabilità ed in parte ordine anche durante i tempi bui dei primi anni Novanta; il grande demerito è che questo sistema di racket e tangenti creato, oggi denunciato dalla politica federale,  non ha dato la possibilità ai moscoviti di diventare piccoli imprenditori (aprendo bar, ristoranti o attività di servizi) a tutto vantaggio delle grandi catene di distribuzione e dei gruppi di acquisto, disposti a pagare di più.

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 E’ passato alla storia col nomignolo di “mani tremanti”. Gennadij Janaev non riusciva proprio a trattenere l’emozione davanti alla stampa internazionale, mentre, il 19 agosto 1991, annunciava che Michail Gorbaciov era “ammalato” in Crimea ed il Comitato di salvezza nazionale (GKCP) assumeva il potere. Di lì a poche ore era in programma la firma del nuovo Patto dell’Unione e l’Urss avrebbe perso i pezzi. Alcune repubbliche sovietiche non ne volevano proprio sapere di rimanere sotto l’egida del Cremlino e l’accordo che Gorbaciov era riuscito a strappare ad alcuni leader nazionali era davvero il massimo che si poteva sperare.

 Il Muro di Berlino era crollato nel novembre ’89, il Comecon ed il Patto di Varsavia, ossia l’organizzazione economica e quella militare dei Paesi comunisti, si erano appena sciolte. Gli “ortodossi” del Pcus non intendevano arrendersi al tramonto del loro mondo. Ma la Guerra fredda era irrimediabilmente persa e l’economia del Paese era allo sfascio con i principali beni di prima necessità razionati. Ricordiamo come se fosse ieri quando, alla fine del dicembre ’90, il capo della perestrojka chiese ufficialmente un vice. Tra lo stupore generale dei presenti e la sorpresa di milioni di ascoltatori della radio Gorbaciov fece il nome del semi-sconosciuto Janaev, già capo dei sindacati, il classico grigio burocrate, ma dall’impressionante pochezza politica. Eduard Shevardnadze, ex ministro degli Esteri e membro dell’ala democratica, iniziò ad urlare ai quattro venti che si andava verso “un colpo di Stato”. La sua era una facile profezia. Dopo pochi giorni gli Omon sovietici spararono sulla folla a Vilnius, in Lituania, provocando una strage.

 In quei mesi di vice-presidenza Janaev restò apparentemente in secondo piano, manovrando dietro alle quinte. I “duri” del governo – detentori dei portafogli della cosiddetta “forza” insieme all’influentissimo Vladimir Krjuchjov, il capo del Kgb, – in realtà aspettavano il momento adatto per annunciare un “raffreddore” del sempre più isolato Gorbaciov. Credevano che si potesse ripetere l’operazione già riuscita nel 1964 quando Chrusciov venne sostituito da Leonid Breznev. Per precauzione, però, decisero di far entrare a Mosca i carri armati come a Budapest nel ’54 e a Praga nel ’68. Temevano la reazione dei “democratici”, raccolti intorno al presidente russo Boris Eltsin. Janaev, come poi lui stesso ammise, era ubriaco quando firmò il decreto per l’introduzione dello stato d’emergenza. Il golpe fu un totale disastro organizzativo con l’unità speciale, inviata ad arrestare Eltsin, giunta in clamoroso ritardo. I democratici, supportati da milioni di russi per le strade, vinsero in 48 ore. Janaev fu arrestato, ma in prigione ci stette poco tempo. Nel 1994 fu amnistiato. Gli 8 golpisti, del resto, avevano commesso un reato contro uno Stato che non esisteva più. “Mani tremanti”, ulteriormente intristito ed invecchiato, trovò impiego per sbancare il lunario come consulente di un comitato di veterani, poi, dopo qualche anno, gli fu offerta una cattedra in un’università secondaria. Janaev verrà ricordato come il cattivo protagonista di un mancato colpo di coda della storia.

Giuseppe D’Amato

Sono ormai lontani i tempi in cui la bandiera cecena sventolava sicura sulla piazza del Mercato a Cracovia. La Polonia ha oggi cambiato politica verso la Russia, assecondando sia una naturale esigenza geopolitica dopo decenni di incomprensioni sia richieste sempre più pressanti da parte della sua imprenditoria. L’incidente aereo di Smolensk nello scorso aprile, in cui è scomparsa un’importante fetta dell’establishment di Varsavia, è stato la triste occasione per un avvicinamento, definito da non pochi osservatori come “storico”. Tali scelte della dirigenza liberale Komorowski-Tusk sono, però, avversati dai partiti nazional-conservatori, che gelosamente conservano i tradizionali sentimenti anti-moscoviti.

In questo quadro si sviluppa la vicenda Zavkayev. Il leader dell’ala moderata del separatismo caucasico, a cui è stato garantito dalla Gran Bretagna lo status di profugo, è stato fermato a Varsavia per un ordine d’arresto dell’Interpol su richiesta russa, mentre si apprestava ad intervenire al Congresso mondiale dei ceceni. Un Tribunale l’ha immediatamente messo in libertà e nei prossimi 40 giorni verrà deciso il daffarsi. Mosca sta preparando i documenti per l’estradizione di uno dei suoi maggiori nemici.

Zavkayev è un politico esperto e non ha di certo sottovalutato i rischi di un suo viaggio in continente. In Cecenia da tempo vige la “pax russa e la ricostruzione avanza a ritmi impressionanti. La repubblica, diretta col pugno di ferro dal clan dei Kadyrov, è uno dei soggetti che ricevono maggiori fondi dal Centro, nonostante nell’aria si respiri un’autonomia di fatto dal Cremlino. Il moderato Zavkayev sta probabilmente tentando di riaccendere i riflettori dei mass media internazionali sul suo Paese.

Il premier Tusk ha dichiarato che Varsavia considererà i “suoi interessi nazionali” nella vicenda. La sensazione è che i suoi avversari interni gli abbiano teso una trappola per silurare le recenti aperture ad Est e Zavkayev, forte del sostegno di ampi settori del Dipartimento di Stato Usa, abbia ricevuto assicurazioni da “amici” fidati in Polonia prima del viaggio d’oltremanica.

Russia ed Ucraina hanno iniziato a discutere dell’annoso problema della demarcazione definitiva delle loro frontiere. L’occasione è stato il centesimo anniversario della prima corsa automobilistica da San Pietroburgo a Kiev. I due presidenti, Medvedev e Janukovich, hanno partecipato a bordo di auto d’epoca ad una delle tappe più significative a ridosso dei confini tra le due repubbliche ex sovietiche.

Ad inizio del presente secolo si era registrati incidenti con sparatorie, soprattutto nella regione di Kerch. Adesso che la questione della base navale di Sebastopoli in Crimea è risolta fino al 2042 grazie all’accordo primaverile di Kharkiv russi ed ucraini intendono cancellare uno dei principali motivi di frizione nelle relazioni bilaterali.

Medvedev e Janukovich hanno rimandato l’agenda finanziaria ed economica al prossimo incontro di Gelenzhik. Il leader ucraino ha però affermato che “insieme” i due Paesi “costruiranno le loro economie e si completeranno l’un l’altro”. Kiev ha urgente necessità di ottenere crediti dall’estero. Gli aiuti internazionali tardano ad arrivare. Nelle scorse settimane Janukovich ha offerto ai tedeschi contratti per l’ammodernamento dello strategico “sistema del gas” nazionale. La Gazprom russa ha, invece, proposto di inglobare l’ucraina Naftogaz, ma per Kiev una tale scelta equivarrebbe a cedere una fetta di sovranità nazionale.

 Canton Ticino in grande spolvero all’ombra del Cremlino. Mai si ricordava prima una missione all’estero così numerosa e con una tale offerta informativa. Ma da decenni i moscoviti sono abituati a conoscere Paesi, regioni e culture del mondo, presentati con mostre, esibizioni o con symposium. I loro gusti raffinati mettono non di rado in difficoltà gli ospiti stranieri. Bellinzona era stata probabilmente avvertita. Ricordiamo come se fosse oggi Carmelo Bene impegnato in una discussione a dir poco elettrica con gli spettatori russi al termine di una sua rappresentazione teatrale agli inizi degli anni Novanta.

 Con la globalizzazione le frontiere sono definitivamente cadute e i clienti bisogna cercarseli a casa loro. L’uso “artigianale” dei rapporti culturali e diplomatici a scopi economici è superato. Nel ventunesimo secolo è il “sistema Paese” a vincere. Basta guardare ai vicini della Confederazione. Imponente è lo sforzo che sta mettendo in piedi l’Italia. Il 2011 è l’anno della Penisola in Russia e dell’ex “superpotenza” nel Bel Paese: centinaia sono gli eventi culturali ed economici in programma con i rispettivi governi nazionali a menar le danze. Quest’anno la Francia, sfruttando lo stesso evento, ha ospitato al museo del Louvre una mostra d’arte russa, unica nel suo genere, e Parigi con le sue aziende ha firmato con Mosca accordi da decine di miliardi di dollari.

 Il 2010 è appunto l’anno del Canton Ticino in Russia. In passato, in riva alla Moscova sono arrivati Vallese, Ginevra, Vaud, Zurigo. Nel 2011 toccherà a Basilea città. Le proposte culturali della “settimana ticinese” sono state sapientemente miscelate con quelle turistiche, economiche ed imprenditoriali. Contatti diretti fra aziende e con regioni federali sono stati con pazienza instaurati. La regia discreta dell’ambasciata svizzera a Mosca ha permesso che non si siano state disperse forze, come troppe volte è accaduto agli italiani negli anni Novanta, quando ogni regione dello Stivale faceva da sé.

 Due sono le domande che il contribuente ticinese dovrebbe a questo punto porsi. La prima è capire quale eco nella società e sui mass media russi abbia avuto questa manifestazione. La seconda è se, conseguentemente, i 260 mila franchi necessari per questa missione siano stati ben spesi. Solo tra qualche mese si capirà, invece, quali saranno le ricadute (positive o meno) di un tale sforzo, ossia se questa di Mosca è stata un’occasione d’oro colta al volo oppure no.

 Finora nell’immaginario collettivo del russo medio il Canton Ticino è fondamentalmente la piazza finanziaria di Lugano, il festival del cinema di Locarno e la terra dei grandi architetti che modellarono San Pietroburgo. In futuro potrebbe essere qualcosa di più. Almeno così lo sperano gli operatori del turismo cantonale. L’agenzia di stampa federale “Interfax” ha rilanciato ai quattro angoli dell’immenso gigante slavo le loro proposte e i loro progetti. Sono state messe in evidenza le novità, ossia la costruzione del Parco acquatico e del tunnel del Gottardo, che sensibilmente avvicinerà il Ticino a Zurigo. Il popolare settimanale “Argomenty i Fakty” ha dedicato un articolo all’inaugurazione della “settimana ticinese”, dando voce ai protagonisti e sottolineando l’importanza della cooperazione interregionale. Saggia è stata la scelta del contatto diretto con alcuni governatori. In Russia è la politica a muovere gli affari. Le regioni di Sverdlovsk, di Stavropolsk e di Kirovsk, a detta di “AiF”, si sono dimostrate assai interessate alle idee ticinesi. Nella prima, ad esempio, è stata costituita recentemente una mini-rappresentanza della Liguria che ha avuto il merito di tessere legami tra aziende degli Urali ed italiane con la firma di contatti rilevanti.

 I principali bollettini sulle manifestazioni culturali nella capitale non hanno “bucato” gli appuntamenti ticinesi né ora né in primavera. Fino al 21 novembre i moscoviti potranno ammirare le opere della pittrice Marianne Werefkin, russa di nascita ma vissuta a lungo ad Ascona.  

 Di diverso carattere gli appuntamenti economici di ieri a cui sono stati invitati esperti e rappresentanti russi dei vari settori grazie alla Camera di Commercio federale, che, nei mesi scorsi, ha distribuito inviti un po’ ovunque. Vi sono stati contatti e conoscenze dirette. Di solito, per esperienza, soltanto una piccola parte si concretizza in affari, ma da qualche parte bisogna pur incominciare.

 Il centro della “settimana ticinese” è stato l’albergo extra-lusso “Ritz Carlton”, giusto di fronte al Cremlino a cento metri dal palazzo della Duma, la Camera bassa federale. Tenere i “toni alti” e presentare un biglietto da visita di un certo tipo sono gli unici modi per avere successo in un Paese in cui l’esibizionismo e l’ostentazione della propria ricchezza, spesso in maniera volgare, sono elementi essenziali del vivere comune. Chi vuole avere rapporti con i “nuovi russi” è avvertito: il conto è salato!

 L’affluenza alle urne è stata inferiore al 33% degli aventi, soglia minima legale per considerare valida la consultazione. Il boicottaggio dei comunisti e dei loro alleati è risultato decisivo. Da oltre un anno  l’ex repubblica sovietica non riesce ad eleggere il capo dello Stato.  La possibilità di nuove elezioni parlamentari nei prossimi mesi è concreta.

 Lacrime, dolore, tristezza. La Russia intera ha ricordato la tragedia della scuola di Beslan di 6 anni fa. Nella cittadina osseta sono state tre le giornate di lutto.

 Mercoledì mattina (primo settembre), circa 3mila persone hanno portato alle rovine della palestra, dove si registrò il maggior numero di morti, bottiglie d’acqua, fiori, candele. Giovedì, cerimonia religiosa, poi nella piazza principale requiem e lettura di alcune poesie. Oggi alle 13.05, ora di inizio dello spargimento di sangue, minuto di silenzio dopo il suono delle campane, quindi sono stati liberati nel cielo 334 palloncini bianchi in memoria dei caduti, i cui nomi sono stati letti da uno speaker in un clima gelido e spettrale.

 Come si ricorderà, il primo settembre 2004 un gruppo di terroristi radicali assaltò la scuola numero uno di Beslan – piccolo centro della Russia meridionale -, prendendo in ostaggio 1128 prigionieri tra allievi, docenti e genitori. Dopo 52 ore di infruttuose trattative lo scontro armato con la morte di 334 persone, di cui 186 bambini.

 “Quando si avvicinano questi giorni – ha ammesso Liudmila Plieva, funzionario della cittadina, l’aria si fa sempre pesante”. Quest’anno è stata eretta una croce e posto il primo mattone per la costruzione di una chiesa.  “Purtroppo – ha ammesso il presidente dell’Ossezia settentrionale Mamsurov – il pericolo di atti di terrorismo rimane”. Nel 2010 la stessa capitale Mosca è stata colpita, dando nuova linfa alle frange più dure della società federale.

 Manifestazioni contro il terrorismo e in memoria delle vittime di questa piaga sono state tenute sia in Russia che all’estero.

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