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Rossosch (Medio Don). Percorrere una delle strade più tragiche della Storia d’Italia. E’ questa l’idea, che sta realizzando un gruppo di camminatori lombardi. Sono in cinque, tutti con considerevoli esperienze come alpini e scout. Alessio Cabello, Cristiano Baroni, Diego Pellacini, Giancarlo Cotta Ramusino e Nicola Mandelli hanno organizzato questa passeggiata di oltre 150 chilometri dalle rive del fiume Don a Nikolajewka, l’odierna Livenka, dove, il 26 gennaio 1943, quello che rimaneva delle divisioni italiane riuscì a rompere l’accerchiamento delle truppe sovietiche ed uscì dall’infernale “sacca”. Decine di migliaia di nostri ragazzi persero la vita in quelle giornate terribili, le peggiori di sempre per le Forze Armate italiane. Le temperature erano allora intorno ai 30 gradi sottozero, i campi pieni di neve e le vie principali occupate dai mezzi corazzati sovietici.

 L’anniversario del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia ha reso questa iniziativa ancora più significativa. Il nostro – hanno scritto prima della partenza – “è un cammino che vuole incontrare anche coloro che vivono in quelle terre. Non ci sono vette da conquistare o méte da raggiungere. E’ un viaggio per ricordare quanto terribile sia il dramma della guerra e per prodigarsi per evitarla in futuro”.

 In passato tre di loro hanno percorso più volte il cammino di Santiago di Compostela, quello di San Francesco, la via Francigena. Diego Pellacini ha girato molto in America ed in Africa, mentre Nicola Mandelli ha scalato montagne come l’Aconcagua o il Kilimangiaro.

 “Ogni territorio – dice Giancarlo Cotta Ramusino – vive la propria evoluzione: il tempo non si è certo fermato al 1943 così come verso Roncisvalle non si ode il corno di Rolando”. Proprio per cercare al massimo il contatto con la gente il gruppo non ha portato con sé delle tende. Come 68 anni fa furono costretti a fare i militari dell’Armir – per non restare di notte all’addiaccio – chiederanno ospitalità nelle izbe. Sono tantissime le storie delle donne russe ed ucraine che curarono, salvandoli, i nostri poveri ragazzi assiderati così assomiglianti ai loro figli schierati, però, sul fronte opposto. L’anima slava ha sempre un posto di riguardo verso chi soffre.

 “L’idea di questa impresa – continua Cotta Ramusino – è venuta a Cristiano Baroni circa un anno fa. A me subito è apparsa un po’ troppo ambiziosa”. La parte più complessa è stata quella di raccogliere informazioni sufficienti soprattutto perché nessuno del gruppo parla russo. L’incontro con la professoressa Gianna Valsecchi e l’ausilio della sezione Ana di Casatenovo si sono rivelati “fondamentali”.

 Infatti, se si cerca sulle carte geografiche russe non si trova Nikolajewka, dizione presente sulle carte militari tedesche della Prima guerra mondiale utilizzate dalle truppe italiane. Lo stesso Mario Rigoni Stern, autore dell’indimenticabile racconto “Il Sergente nella neve”, ebbe non poche difficoltà a ritrovare il luogo dove lasciò per sempre tanti suoi compagni d’armi. Scoprì, però, l’izba in cui mangiò insieme a dei soldati nemici in un momento di tregua della battaglia. Certe cose incredibili accadono solo in Russia.

Vedi anche MUSEO DEL MEDIO DON Rossosch – Russia.

Giuseppe D’Amato

 Dal primo scandalo planetario virtuale del XXI secolo la diplomazia statunitense esce non bene anche se la tempesta WikiLeaks non ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale nulla che, in realtà, non si sapesse già. Si è avuta soltanto la conferma di quanto giornali ed addetti ai lavori conoscono da anni. Il ficcanaso Assange ha semplicemente servito su Internet il classico “gossip” da “insider”, ossia da gente ben addentro ai fatti.

 Che la diplomazia internazionale sia in genere poco trasparente lo sanno anche le pietre. Nel recente passato, ad esempio, alcuni leader jugoslavi degli anni Novanta rivelarono al tribunale de L’Aja le clamorose assicurazioni ricevute da emissari a stelle e strisce in cambio delle loro uscite di scena. Lo stesso avvenne alla fallita conferenza di Rambouillet, che diede luce verde ai bombardieri della Nato per i raid contro Belgrado nel marzo ’99. Prima dell’odierna rivoluzione tecnologica la verità su eventi scomodi non troppo spesso usciva fuori. Chissà perché, quando le luci dei mass media si spegnevano tutto era messo d’incanto a tacere.

 Tre sono le vere grandi novità: la fragilità dimostrata dai sistemi di sicurezza degli Stati di fronte ad un hacker capace ed esperto; l’estrema difficoltà globale nella gestione della vorticosa evoluzione tecnologica in atto; la quasi impossibilità di nascondere oggi la verità in un mondo informatizzato.

 Un tempo da “Foggy Bottom” sarebbe sparito un dossier, adesso addirittura è stata sottratta l’intera corrispondenza del Dipartimento di Stato Usa. Per compiere un’impresa del genere Assange ha immancabilmente mischiato l’approccio tradizionale, ossia la classica talpa o talpe a Washington, con le sue impressionanti conoscenze tecnologiche. Nei decenni passati sarebbe stato necessario un Tir per portarsi via più di duecentomila documenti. Ora qualche chiavetta flash è più che sufficiente. Ecco, quindi, che l’allarme suona in tutte le cancellerie del mondo, le quali tentano a fatica di minimizzare lo scandalo. Le procedure di messa in sicurezza e di archiviazione dei documenti andranno ovunque riviste soprattutto se in presenza di materiale “classificato”.

 Un tempo servivano schiere di specialisti e soldati per portare lo scompiglio in un Paese avversario. Oggi, invece, bastano pochi ben addestrati periti informatici dotati di computer ultramoderni e linee superveloci. Nel 2007, dopo uno scontro politico con i nazionalisti russi, l’Estonia – forse la realtà più tecnologizzata nel Vecchio Continente – è stata attaccata dagli hackers, che hanno paralizzato per giorni la vita nazionale. Non funzionava più niente dalle banche ai telefoni. La Nato ha studiato l’evento, creando unità specializzate alla guerra cibernetica.

 Il 2011 sarà un anno in cui i “pirati”, seguendo l’esempio Assange, metteranno certamente alla prova le strutture statali. Chissà, se le amministrazioni hanno già in mano le contromosse.

I due manager della Yukos. Da Centro Stampa Khodorkovsky

Nessuno si faceva illusioni.  Prima fra tutti Michail Khodorkovskij e Platon Lebedev che sapevano in anticipo che sarebbero stati nuovamente condannati, questa volta per frode allo Stato e riciclaggio. L’osservazione “il ladro resti in prigione”, pronunciata da Vladimir Putin alla vigilia della conclusione del procedimento giudiziario, aveva tolto quel 10% restante di incertezza.

Nessun imprenditore od oligarca russo, che ha operato negli anni Novanta, è senza macchia e può tirare la cosiddetta “prima pietra”. Senza paura di sbagliare si può tranquillamente affermare che Khodorkovskij e Lebedev non hanno commesso nulla di diverso da quanto fatto dai loro colleghi in quello stesso complesso primo decennio post sovietico in cui si sono formate e perse fortune gigantesche.

La differenza è che il duo della Yukos non è stato ai patti sottoscritti nella primavera 2000 dai principali magnati russi col Cremlino, anzi è arrivato persino ad offendere Putin. “Misha, fermati”, gli avevano intimato gli amici resisi conto che il giovane presidente era del tutto diverso dal malandato predecessore, Boris Eltsin.

Ed invece il testardo Khodorkovskij, credendosi invincibile, è andato avanti. Voleva entrare in politica ed aveva stretto un rapporto forte con i potenti circoli di Wall Street a cui intendeva vendere il 40% delle ricchezze energetiche dell’ex superpotenza. Conclusione: la Yukos è fallita, mentre Khodorkovskij è finito a cucire guanti nelle patrie galere in Siberia.

Nella storia russa è famosa la corrispondenza tra Ivan il terribile ed il principe Kurbskij. Quest’ultimo, dopo aver sfidato lo zar, era saggiamente fuggito all’estero, da dove si divertiva a stuzzicare con delle missive il potente moscovita, che lo invitava a rientrare in Patria per tagliargli la testa. Khodorkovskij, probabilmente, ha studiato male queste pagine della storia del suo Paese.

Il 2011 è un anno di campagna elettorale per le presidenziali di marzo 2012. Il potere si sarebbe trovato in libertà vigilata l’ingombrante Khodorkovskij, che secondo alcuni specialisti è riuscito a nascondere imponenti capitali e potrebbe voler cercare una rivalsa.

Washington e Berlino fanno bene a sottolineare il passo indietro compiuto dalla Russia sulla strada della democrazia e della costruzione di uno Stato di diritto. Ma finché si edificano gli Stati sulle personalità e non sulle istituzioni si rischiano queste scivolate.

L’Occidente ha bisogno di Mosca per rispondere alle sfide del XXI secolo. A Lisbona le ha proposto un accordo strategico, che se non colto al volo, rischia di far diventare la Russia la periferia della globalizzazione. Conti in sospeso o no, offese oltraggiose ed antipatie, è venuto il momento che anche nella sala dei bottoni moscovita capiscano che c’è un limite alla decenza. Se si vuole essere trattati da pari nel club dei Potenti del mondo bisogna raggiungere perlomeno “gli standard minimi”.

 Le presidenziali bielorusse paiono davvero scontate. Tutti i sondaggi della vigilia danno il capo dello Stato uscente Aleksandr Lukashenko, nettamente in testa con un notevole margine di vantaggio sulla somma dei voti che dovrebbero ottenere i suoi 9 sfidanti messi insieme. Se nel 2006 la competizione poteva considerarsi aperta, poiché l’opposizione era riuscita a nominare un solo candidato (Aleksandr Milinkievich), adesso ognuno è andato per conto suo. Nel 2008 il fronte anti-governativo non è riuscito ad eleggere nemmeno un suo rappresentante in Parlamento.

 Presidente dal ’94, criticato da Russia, Unione europea e Stati Uniti Lukashenko, definito dall’Amministrazione Bush “l’ultimo dittatore” del Vecchio Continente, non ha avversari in Patria anche grazie al ferreo controllo dei mass media. Gli osservatori dell’Osce hanno già certificato la disparità del loro uso fra i candidati.

 Russi ed occidentali hanno in questo momento altri problemi per scontrarsi sulla Bielorussia. Così se le elezioni saranno “democratiche” o avranno una parvenza di esserlo l’Unione europea garantirà a Minsk un credito di 3 miliardi di euro. Da settimane circola voce che dopo le presidenziali la Bielorussia rischia il default per le eccessive spese di questi mesi. La Russia, invece, ha già concesso ai fratelli “bianchi” vantaggi doganali e fiscali, simili a quelli goduti in passato, sulla raffinazione e sulla vendita del proprio petrolio all’estero.

 Democraticamente “Batka” ha permesso di apparire per un’ora in televisione a ciascuno dei suoi 9 litigiosi avversari alcune settimane prima del voto in modo che gli elettori abbiano il tempo di dimenticarseli. Ma è bene sottolinearlo tra loro non vi sono rilevanti personalità che potrebbero coagulare un fronte anti-Lukashenko.

E’ stata una delle più cruenti risse viste in un Parlamento di un Paese civile. Da quasi 8 mesi i deputati ucraini non se le davano di santa ragione. L’ultima volta era volato di tutto, mentre era messo al voto l’accordo con la Russia per l’affitto della base militare di Sebastopoli. Adesso il motivo del contendere è la messa in stato di accusa dell’ex premier Julija Timoshenko, leader di Bjut ed ex “pasionaria” della fallita rivoluzione arancione.

Gli schieramenti sono sempre gli stessi: da una parte i russofoni dall’altra i mitteleuropei. Questa volta l’obiettivo “militare” era occupare la sede del presidium all’interno dell’Aula della Rada per bloccare la sessione in corso. Urla con bestemmie e parolacce hanno fatto da corollario all’ennesimo corpo a corpo mentre le sedie volavano ed i deputati si scazzottavano selvaggiamente.

VIDEO 27 APRILE 2010 – VIDEO 16 DICEMBRE 2010

Julija Timoshenko (photo by Sebastian Zwez)

  “Mosca – dice Andrej Rjabov, una delle “menti” del prestigioso Centro studi “Carnegie”, – ha non pochi problemi a rapportarsi con Bruxelles direttamente, poiché l’Unione europea ha una burocrazia particolare. Utilizza un approccio che non va bene con l’attuale Amministrazione russa. Ossia Bruxelles pretende prima l’ottenimento di precisi obiettivi da parte chi vuole avere con lei relazioni di un certo tipo, quindi discute dei passi successivi. Con il duo Putin-Medvedev servono passi concreti, reciproci e contemporanei”.

 Ecco quindi perché è stata preferita la scelta di avere soprattutto rapporti diretti con gli Stati nazionali. “Ci sono partner strategici come Germania, Francia, Italia tra i maggiori Paesi europei. Sono stati definiti dei progetti che vengono portati avanti. Partendo da loro si è costruita la politica estera russa. Con Berlusconi si sono creati ottime relazioni personali, che hanno sfruttato le condizioni internazionali esistenti. Lo stesso sta avvenendo con il francese Sarkozy, anche se qualche tempo fa le cose non andava per il meglio”.

 Ma perché Putin ha trovato un “amico” fidato ed un alleato proprio nel premier italiano? “I due hanno uno stile assai simile: sono populisti e pragmatici. Gli affari di Stato vengono prima di tutto. La politica viene intesa come grande business e viene piegata alle esigenze delle economie”.

 Quale è il segreto del successo dell’imprenditoria italiana in Russia? “C’è una lunga tradizione che fonda le sue radici nell’epoca comunista. Questo bagaglio culturale e di contatti è rimasto. Per di più il clima generale permette il moltiplicarsi di affari a lunga prospettiva”.

 Le pare possibile che la monopolista Gazprom paghi delle “royalities” in giro? “Come hanno scritto a più riprese gli specialisti del settore esistono schemi poco chiari e poco trasparenti. Prendiamo ad esempio il rapporto tempestoso tra Russia ed Ucraina in campo energetico. In passato schiere di strani personaggi hanno fatto il bello ed il cattivo tempo. Poi, per riportare un po’ d’ordine, Mosca ha chiesto che venisse sciolta la Rosukroenergo, la società di intermediazione. Si è così scoperto che la Naftogaz ucraina aveva i soldi per pagare le forniture. Prima sembrava che non fosse così. In futuro, forse, se il Terzo pacchetto europeo per l’energia entrerà in vigore si cancelleranno alcuni buchi neri”.

 Lei lavora qui a Mosca per uno dei più influenti centri studi del mondo con sede principale a Washington. Ci spiega perché traspare dai messaggi pubblicati da WikiLeaks una sorta di gelosia americana nei confronti delle ottime relazioni russo-italiane? “Le posso rispondere per quanto riguarda la Russia. Il governo americano è stato messo al corrente dai propri funzionari di quanto succede qui. Questo serve per capire l’affidabilità di chi si ha di fronte nel momento di iniziare una trattativa. Ossia questi accordi a più corto raggio si possono stringere, mentre gli altri di diverso genere no. Ad esempio, sul gas si può fare, mentre sulle intese per la sicurezza a lungo termine possono nascere degli imprevisti. In sostanza tutta questa corrispondenza serve per non deludere speranze inattese”.

South Stream, memorandum 23.06.2007

 

 Non si confonda il gossip e l’invidia di alleati probabilmente gelosi con i sacri interessi nazionali. Il rapporto con la Russia è quanto di più bipartisan ci sia stato nella politica italiana del dopo crollo dell’Urss. La personalizzazione, impressa dal premier Berlusconi, ha consolidato relazioni che hanno radici storiche. Senza andare troppo in là basta ricordare i legami diretti col Pcus del maggiore Partito comunista dell’Europa occidentale e gli affari stretti in epoca sovietica. 

 Fu la Fiat ad essere scelta nel maggio ‘66 a Togliattigrad per costruire le automobili per il popolo. E fu Enrico Mattei in precedenza ad aprire quel mercato, apparentemente così lontano ed irraggiungibile. Le nostre aziende, affamate di idrocarburi, si affrancavano così in parte dal potere dalle “Sette sorelle”.    

 Nel marzo 2007 è stato il governo Prodi a definire con l’allora presidente Putin uno dei più importanti (di sempre!) pacchetti di accordi su energia ed infrastrutture, per non parlare della produzione del Superjet 100. Agli inizi del mese successivo l’Eni e l’Enel acquistavano all’asta per 5,8 miliardi di dollari alcuni dei più contestati asset della Yukos, la compagnia petrolifera dell’oligarca Michail Khodorkovskij, oggi in prigione, dietro il quale si nascondevano – secondo gli specialisti – finanziatori americani di Wall Street. In uno dei messaggi, pubblicati da WikiLeaks, si fa menzione degli “scambi di favori” tra Gazprom e le società italiane, che successivamente hanno rivenduto in parte quegli asset, levando le castagna dal fuoco ai russi ed evitando loro grane legali internazionali.    

 Ma gli italiani sono con i tedeschi i fidati alleati strategici del Cremlino nelle infrastrutture con i francesi che tentano in tutti i modi di infilarsi nella partita. Soltanto i nostri tecnici, fiore all’occhiello di un Paese in perenne crisi isterica, sono riusciti a costruire pipeline ultratecnologiche sottomarine uniche al mondo. Il russo-tedesco “Nord Stream” sotto al Baltico è stato affidato nella sua fase esecutiva ad un’impresa nostrana. Parallelamente l’Eni gestisce il “South Stream”, analogo gasdotto sotto al Mar Nero, in concorrenza con il “Nabucco di ispirazione americana e degli europei filo-Usa. L’obiettivo finale è di rendere l’Italia un “hub” del gas nel Vecchio continente, realizzando il progetto di indipendenza energetica di Mattei.    

 Il segreto di questa politica bipartisan sta nella Commissione bilaterale intergovernativa, nella sapienza del gruppo dirigente dell’Eni e nei forum degli imprenditori, l’ultimo dei quali si è tenuto pochi giorni fa. Sono loro che suggeriscono idee e proposte.    

 L’Esecutivo Berlusconi, ironia della sorte, è quello che negli ultimi anni ha maggiormente differenziato le fonti di approvvigionamento ed ha ridotto la nostra dipendenza energetica dalla Russia: oggi, certificano enti indipendenti, 33% da Mosca e 32% dall’Algeria. I meriti del Presidente del Consiglio nell’aver aperto il mercato dell’ex superpotenza alle aziende italiane sono davvero tanti dopo l’inconcludenza dei nostri manager negli anni Novanta. Forse ci si è dimenticati troppo in fretta del mancato accordo della Fiat nel 1998 con la Gaz?    

 Per i russi l’Italia è un punto di riferimento in numerosi campi. Non è un caso che il filmato di presentazione a Zurigo dei Mondiali di calcio del 2018 mostri un ragazzo, Sascia, con indosso la maglietta della Russia, che tenta di fare un goal ai “maestri” azzurri del Bel Paese. Il sogno di quell’adolescente di vedere i campioni negli stadi di casa si è realizzato, mentre per noi quello di Enrico Mattei rimane a portata di mano.   

Giuseppe D’Amato

 Se sono non pochi i leader mondiali non proprio contenti delle rivelazioni di Wikileaks ce n’è uno che addirittura si frega le mani. Il lungo lavoro certosino dietro alle quinte o quasi ha dato i suoi positivi effetti anche all’estero. Gli stranieri hanno avuto la definitiva conferma su chi realmente diriga la Russia o come si dice a Mosca “chi comanda in casa propria”. Vladimir Putin esce da questo primo mega-scandalo “virtuale” planetario del XXI secolo come un vincitore con inimmaginabili ricadute d’immagine in Patria.

 Nel corso dell’ultimo decennio l’attuale premier è stato fotografato o ripreso ovunque nelle situazioni più incredibili: mentre nuota in un fiume siberiano come il leggendario leader cinese Mao, mentre guida un aereo caccia supersonico, mentre a torso nudo va a pesca oppure partecipa ad una battuta ecologica per la difesa delle tigri. Un anno non troppo lontano fa le russe hanno cantato a squarciagola il tormentone estivo “vorrei uno come Putin che non beva, che non se ne scappi via e che mi rispetti”. Persino i gay hanno collezionato la fotografia dell’“uomo forte” del Paese, campione di judo, dai super pettorali, creando non poco imbarazzo nella sala russa dei bottoni.

 Ma adesso, quasi all’inizio della campagna elettorale per le presidenziali del 2012, quando qualcuno ipotizza una corsa contro il giovane ed ambizioso Dmitrij Medvedev, nessuno si aspettava dagli americani un simile regalo. In un dispaccio diplomatico Putin è definito l’“alpha dog”, il capobranco che domina la scena politica del suo Paese, il macho. “Grazie Wikileaks”, devono aver pensato nell’entourage del primo ministro: nemmeno l’acrobazia mediatica più sofisticata dei super consulenti di immagine del premier avrebbe ottenuto migliori risultati.

 Per di più in un messaggio pubblicato dal sito del ficcanaso Assange i funzionari Usa raccontano il ruolo informale svolto dall’attuale “first lady” russa all’interno dell’Amministrazione federale. Svetlana Medvedeva “crea rapporti tesi tra gli opposti schieramenti e rimane argomento di attivi pettegolezzi”. I diplomatici scrivono che la moglie del presidente ha stilato una lista di alti ufficiali – a cui sono stati creati ostacoli nello svolgimento della loro carriera – non fedeli al capo del Cremlino. Insomma questo è il bel fiocchetto finale sul dono confezionato da Wikileaks per Natale!

La soluzione della crisi politica moldava appare ancora lontana. I risultati delle parlamentari non hanno assegnato chiare vittorie. Il Partito comunista, la formazione più votata, ha ottenuto 42 mandati contro i 43 precedenti, i liberal-democratici del premier Filat 32 (ne avevano 18), quello democratico dell’ex speaker Lupu 15 (13) e i liberali di Ghimpu 12 (15). Le altre 16 compagini che hanno partecipato al voto non hanno superato la barriera del 4%. L’affluenza alle urne si è attestata al 58,9%. All’estero hanno votato oltre 30mila moldavi, una decina erano i seggi aperti in Italia.

La coalizione liberale controlla 59 seggi su 101, 6 in più rispetto alle elezioni del luglio 2009. Ne mancano 2 per poter eleggere il presidente come vuole la Costituzione. Da oltre un anno e mezzo l’ex repubblica sovietica è senza il capo dello Stato ed in una situazione di paralisi istituzionale. La prima riunione del Parlamento, appena eletto, è prevista per dopo il 28 dicembre.

La tensione a Chisinau si taglia col coltello. Il leader dei comunisti Vladimir Voronin ha accusato i partiti al governo di avergli rubato il 10% dei voti. Senza un accordo tra i partiti non sembra possibile l’elezione del presidente e la fine di questa interminabile crisi.

Risultati

PC: 32,29%

PDLM: 29,38%

PDM: 12,72%

PL: 9,96%

Lista eletti

PCRM:
1. Voronin Vladimir, 1941, MP, president of the PCRM
2. Greceayii Zinaida, 1956, former Prime Minister
3. Muntean Iurie, 1972, economist, executive secretary of the PCRM
4. Postoico Maria, 1950, MP
5. Tkachuk Mark, 1966, MP
6. Dodon Igor, 1975, MP
7. Misin Vadim, 1945, MP
8. Vitiuc Vladimir, 1972, MP
9. Vlah Irina, 1974, MP
10. Petrenco Grigore, 1980, MP
11. Balmos Galina, 1961, MP
12. Zagorodnyi Anatolie, 1973, MP
13. Ivanov Violeta, 1967, MP
14. Sova Vasilii, 1959, MP
15. Sarbu Serghei, 1980, jurist
16. Domenti Oxana, 1972, MP
17. Chistruga Zinaida, 1954, MP
18. Gagauz Miron, 1954, MP
19. Panciuc Vasilii, 1949, mayor of Balti
20. Mironic Alla, 1941, teacher
21. Bannicov Alexandr, 1962, engineer
22. Poleanschi Mihail, 1980, anthropologist
23. Stati Sergiu, 1961, historian
24. Todua Zurab, 1963, historian
25. Gorila Anatolie, 1960, engineer
26. Bodnarenco Elena, 1965, MP
27. Staras Constantin, 1971, journalist
28. Bondari Veaceslav, 1960, expert in science of commodities
29. Abramciuc Veronica, 1958, MP
30. Reidman Oleg, 1952, MP
31. Musuc Eduard, 1975, MP
32. Eremciuc Vladimir, 1951, MP
33. Garizan Oleg, 1971, MP
34. Babenco Oleg, 1968, MP
35. Mandru Victor, 1059, MP
36. Filipov Serghei, 1965, doctor’s assistant
37. Reshetnikov Artur, 1975, former SIS director
38. Shupak Inna, 1984, anthropologist
39. Botnariuc Tatiana, 1967, MP
40. Petcov Alexandr, 1972, journalist
41. Popa Gheorghe, 1956, engineer
42. Anghel Gheorghe, 1959, jurist

The PLDM:
1. Filat Vlad, 1969, jurist, president of the PLDM, Premier
2. Tanase Alexandru, 1971, jurist, first vice president of the PLDM, Minister of Justice
3. Godea Mihai, 1974, historian, first vice president of the PLDM, MP
4. Palihovici Liliana, 1971, historian, vice president of the PLDM, MP
5. Leanca Iurie, 1963, Deputy Prime Minister, Minister of Foreign Affairs and European Integration
6. Belostencinic Grigore, 1960, economist, rector of the Academy of Economic Sciences
7. Hotineanu Vladimir, 1950, doctor, surgeon, Minister of Health
8. Juravschi Nicolae, 1964, chairman of the Olympic Committee
9. Tap Iurie, 1955, teacher, deputy Head of Parliament
10. Bolocan Lilia, 1972, teacher, AGEPI head
11. Ghiletchi Valeriu, 1960, MP
12. Sleahtitchi Mihai, 1956, MP, lecturer
13. Agache Angela, 1976, MP
14. Balan Ion, 1962, agronomist, MP
15. Deliu Tudor, 1955, MP
16. Ionita Veaceslav, 1973, MP, economist
17. Strelet Valeriu, 1970, jurist, historian, MP
18. Furdui Simion, 1963, historian, MP
19. Lucinschi Chiril, 1970, diplomat, businessman
20. Mocanu George, 1982, economist, head of the State Chancellery’s Local Administration Division
21. Cobzac Grigore, 1959, engineer, MP
22. Cimbriciuc Alexandru, 1968, jurist, MP
23. Butmalai Ion, 1964, jurist, MP
24. Ciobanu Ghenadie, 1957, teacher, composer, MP
25. Olaru Nicolae, 1958, MP
26. Ionas Ivan, 1956, engineer, MP
27. Plesca Nae-Simion, 1955, philologist, businessman
28. Dimitriu Anatolie, 1973, jurist
29. Ciobanu Maria, 1953, teacher
30. Vlah Petru, 1970, jurist, a member of the People’s Assembly of Gagauzia
31. Vacarciuc Andrei, 1952, head of Cimislia district
32. Stirbate Petru, 1960, doctor

The PD:
1. Lupu Marian, 1966, economist, MP, the president of the PDM
2. Plahotniuc Vladimir, 1966, engineer, businessman
3. Lazar Valeriu, 1968, Minister of Economy, vice president of the PDM
4. Corman Igor, 1969, historian, diplomat, vice president of the PDM
5. Diacov Dumitru, 1952, journalist, MP, president of honor of the PDM
6. Raducan Marcel, 1967, Minister of Construction and Regional Development
7. Candu Andrian, 1975, jurist, entrepreneur, director general
8. Buliga Valentina, 1961, Minister of Labor, Social Protection and Family
9. Filip Pavel, 1966, director general, SA Tutun-CTC
10. Botnari Vasile, 1975, economist
11. Stoianoglo Alexandru, 1967, MP
12. Apolschii Raisa, 1964, lawyer
13. Bolboceanu Iurie, 1959, unemployed
14. Guma Valeriu, 1964, economist, MP
15. Ghilas Anatolie, 1957, engineer, MP

The PL:
1. Ghimpu Mihai, 1951, jurist, chairman of the PL, Head of Parliament and Moldova’s Acting President
2. Salaru Anatolie, 1962, doctor, Minister of Transport
3. Fusu Corina, 1959, journalist, MP
4. Hadarca Ion, 1949, philologist, writer, MP
5. Munteanu Valeriu, 1980, jurist, MP
6. Bodrug Oleg, 1965, physician, editor, MP
7. Vieru Boris, 1957, philologist, MP
8. Lupan Vladimir, 1971, diplomat, physician, presidential adviser
9. Popa Victor, 1949, jurist, teacher at the Free International University
10. Cojocaru Vadim, 1961, economist, MP
11. Gutu Ana, 1962, philologist, MP
12. Brega Gheorghe, 1951, doctor, MP.

E’ la fine definitiva di una delle più terribili bugie della Seconda guerra mondiale. La Russia si libera del peso di un’infamia spaventosa. La “tragedia” di Katyn, dove nella primavera del 1940 furono passati per le armi circa 22mila polacchi, fu opera dell’Unione Sovietica. “Tutti i materiali, per anni rimasti negli archivi – si legge in un documento ufficiale approvato dalla Duma, la Camera bassa del Parlamento federale, – testimoniano che il massacro è stato compiuto da Stalin e da altri dirigenti sovietici”.

Per decenni l’Urss addossò la responsabilità dell’eccidio ai nazisti. I carnefici uccisero le proprie vittime con colpi di pistola di fabbricazione tedesca nel cranio. Le prime parziali ammissioni, che la verità “ufficiale” non era quella, giunsero negli ultimi anni della perestrojka con Gorbaciov. Fu, però, Boris Eltsin, che trasmise parte dei documenti d’archivio a Varsavia, a porgere le scuse del suo Paese, anch’esso uscito prostrato dalla repressione comunista. Katyn, purtroppo, era soltanto una tragica goccia nel mare di sangue dei popoli sovietici, provocato dallo stalinismo.

Dopo il Duemila i rapporti russo-polacchi sono diventati sempre più tesi. La ragione primaria del contendere era di carattere storico. Troppi i buchi neri nelle relazioni fra i due popoli slavi, avversari o nemici nel corso dei secolo. Katyn, in particolare, continuava a pesare come un macigno.

All’inizio della primavera scorsa Mosca ha finalmente scelto la strada della piena collaborazione con Varsavia. L’obiettivo era quello di estirpare, una volta per tutte, una delle più dolorose spine nel fianco della propria politica estera. I polacchi, ad esempio, avevano accordato la propria disponibilità agli Stati Uniti per la dislocazione di siti del cosiddetto “Scudo spaziale” sul proprio territorio in funzione anti-russa. Varsavia creava problemi al processo di avvicinamento di Mosca all’Unione europea.

La sciagura di Smolensk ha ulteriormente accelerato gli eventi. Le immagini televisive di Putin e Medvedev con le lacrime agli occhi, abbracciati con i superstiti della dirigenza polacca, davanti ai resti dell’aereo del presidente Kaczynski hanno aiutato a sfondare definitivamente il muro della reciproca diffidenza. Mosca ha accolto in maggio sulla Piazza Rossa un drappello di ufficiali polacchi che hanno sfilato, insieme ai militari della Nato, in ricordo della vittoria nella Seconda guerra mondiale. Un onore del genere era impensabile soltanto nell’estate del 2008.

Quello della Duma – ha commentato il premier polacco Donald Tusk – “è un gesto politico importante”. I due Paesi hanno ormai compreso che è venuto il tempo di voltare pagina e di essere stati entrambi vittime del totalitarismo del XX secolo.

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