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La Russia come bastione del conservatorismo mondiale, a difesa della morale messa in crisi dalla “tolleranza, asessuata e sterile dell’Occidente”, in cui “il bene ed il male vengono confusi”. PutinPressSluzhbaKremlia

 Questa la nuova missione dell’ex superpotenza secondo Vladimir Putin. Dopo aver fermato Gengis Khan, Napoleone ed Hitler adesso è venuto il momento di salvare l’umanità da quest’ultima deriva.

 Il capo del Cremlino ce l’ha sia con i cambiamenti nelle società sia con i nuovi equilibri globali, che vedono una Russia sempre meno protagonista e più isolata.

 Il primo aspetto è quello riguardante i valori tradizionali. A poche settimane dalla tanto attesa (dal potere moscovita) “vetrina” delle Olimpiadi invernali di Sochi, Putin il “macho” non ha digerito la campagna-stampa occidentale che ha evidenziato l’intolleranza dilagante contro le minoranze sessuali, gli stranieri, i “diversi”.

 Sono soprattutto i mass media federali a fomentare, irresponsabilmente, sentimenti, che, in un Paese multi-etnico e multi-confessionale, rischiano di dar fuoco alla “Santa Barbara” della già complessa convivenza pacifica tra genti così differenti.

 Le ragioni della propaganda dell’insofferenza sono semplici. La crisi economica avanza rapidamente e non si sa quali conseguenze avrà sul Paese. Senza un nemico geopolitico, più o meno chiaro, e con un collante – un tempo sovietico – che tende a perdere forza, il potere si prepara a combattere una lunga battaglia dagli esiti incerti.

 Il russo medio è sicuramente conservatore, ma certamente non bigotto. Indurlo a pensare che i gay di casa propria o gli immigrati (anche ex fratelli sovietici) siano agenti infiltrati di un oscuro nemico esterno aiuta, e non poco, a distogliere l’attenzione dalle questioni sociali irrisolte.

 Il secondo aspetto del ragionamento del capo del Cremlino riguarda le nuove ideologie, spesso straniere, che in Africa ed in Medio Oriente hanno portato guerre e lutti. Il riferimento è sia allo scenario interno che a quello internazionale. Su quest’ultimo, onestamente, è difficile dargli torto. Si pensi al risultato delle “primavere arabe”. Mosca, perciò, si propone come garante dell’attuale status-quo.

 Il punto saliente è, invero, sottaciuto: sulla scena internazionale la Russia si sente non considerata come potenza regionale quale è in realtà. Europa e Stati Uniti dovrebbero tranquillizzarla se essi sperano di averla dalla propria parte di fronte alle sfide del XXI secolo.

 Il caso siriano pare essere già dimenticato: senza la mediazione russa Obama si sarebbe, forse, buttato in una ennesima disastrosa avventura.

 Europa e Stati Uniti farebbero, però, anche bene a spiegare a Putin che una Russia finalmente democratica non avrebbe bisogno di certe manovre o missioni da svolgere.

gda

La battaglia è probabilmente finita. L’ultima incognita è legata alla tradizionale imprevedibilità degli ucraini. Ma se dovesse andare proprio in questo modo il processo di integrazione europea ad Est, nelle terre un tempo ex sovietiche, segnerebbe una brusca frenata.

Le pressioni del Cremlino sulla repubblica ex sorella hanno avuto, pertanto per ora, la meglio. Nei mesi scorsi la Russia ha iniziato a far capire a quali conseguenze spaventose l’Ucraina sarebbe andata incontro se Kiev avesse legato il suo destino all’Ue.

 Mosca non intende avere concorrenti all’interno del suo “cortile di casa” è la lezione appresa in questi giorni tesissimi dai funzionari europei.

 A nulla è valsa la dichiarazione al vetriolo della cancelliera tedesca Merkel, che ha ricordato a Vladimir Putin, che la “Guerra Fredda è finita da 24 anni” e che ogni Paese è sovrano di decidere la sua politica.

 Il presidente Janukovich è stato posto davanti alla scelta tra il Patto Associativo con l’Ue e la concorrente nascente Unione Doganale, una specie di Urss economica. Il primo è un ottimo investimento sul futuro con vantaggi enormi nel lungo periodo. La seconda è un rattoppo utile nel breve periodo, ma un progetto troppo ambizioso che zoppica fin dai suoi esordi.

 In sintesi, Kiev è rimasta stritolata in mezzo.

 Dopo il voto negativo del Parlamento ucraino l’Unione europea lascia ancora la porta aperta, anche perché è finalmente conscia che Janukovich e i suoi si trovano davanti ad una decisione epocale, non solo economica ma anche geostrategica e psicologica.

 Gli europei, per decenni satelliti del Cremlino, sanno perfettamente che la Russia senza l’Ucraina non potrebbe più essere in futuro un impero e verrebbe ricacciata ad Est, verso l’Asia. A Kiev è poi nata la Rus’ medioevale e da quelle radici storico-culturali-religiosi si è sviluppata successivamente la Moscovia.

 Chi vincerà questo scontro geopolitico tra Russia ed Ue dovrà, comunque, farsi carico dell’Ucraina, Paese oggi sull’orlo di una gravissima crisi finanziaria. Nei prossimi mesi serviranno non meno di 10 miliardi di dollari per rimpinguare le asfittiche casse di Kiev.
Altrimenti l’intera Europa centrale sarà colpita da una nuova ondata di crisi.

gda

La chiamavo Beatrix, la donna che regala la beatitudine.  Lei rideva e mi lasciava nel dubbio.

Nel bosco c’ erano  una ventina di gradi sotto lo zero. Con le sue amiche faceva un buco nella crosta ghiacciata dello stagno e si tuffava con il bikini nell’acqua gelida. Come se fosse a Catanzaro Lido in agosto. Orgogliosa ci faceva vedere il giorno dopo le fotografie. Le dicevo. Tu sei pazza, sorella.

Andava a cavallo e galoppava tra le betulle come un’amazzone. Io restavo a terra. La guardavo con il fiato sospeso perché temevo che il cavallo potesse scivolare, imbizzarrirsi, disobbedire. Bionda, con gli occhi chiari. Pareva una nordica, non una russa perché le russe hanno un diverso colore di capelli e sono molto alte. Bea non era alta.

Nella mia casa a Mosca ci riunivamo di sera i giornalisti e tiravamo con  una balestra vera contro il bersaglio inchiodato dietro la porta.

Capitava che il dardo saltasse prima del tiro. Niente da fare. BeatriceOttaviano

La regola era: ‘un colpo solo’.  Perdevi così il turno. Beatrice quasi sempre faceva centro.

Un giorno del 1994 le cadde sul piede lo sportello dell’armadio e le fratturò l’alluce. Io andai a trovarla e le regalai una vecchia icona bruciacchiata che avevo comprato il giorno prima al mercatino di Ismailovo. Le piaceva molto. La teneva sempre sul comodino. Chissà dove sarà ora quella vecchia icona.

Venne con il piede ingessato a una mia festa. Ghenna la prese in braccio e la fece ballare. Piroettavano da un capo all’altro della stanza al suono di un lento. Forse Battisti.

Ghenna cercò di baciarla. Lei si scansò.  Il russo ci rimase male, ma non si sbilanciò. Continuò a farla ballare tenendola in braccio.

Poi l’Ansa mi mandò in India. Beatrice andò a Belgrado. La rividi due anni fa. Scrissi questo pezzo per scarfone.blogspot.com.

 ***

 ‘’L’Università di Roma, la Sapienza, e l’Università Statale di Mosca, si somigliano. Non solo per la presenza nei due atenei di statue e dipinti che mostrano uomini di proporzioni colossali intenti a costruire il mondo nuovo. Non solo. Si somigliano principalmente nei volti austeri dei docenti, nell’allegria dei ragazzi che sciamano per corridoi, aule, scalinate.

 Sono le tre del pomeriggio del 2 dicembre 2011. Nell’ingresso dell’università,  grande due volte uno stadio di basket, si affollano centinaia di studenti, professori, fotografi. S’inaugura la mostra dell’agenzia ‘Ria Novosti’ e della stessa università sui venti anni (1991-2011) della Russia dopo la dissoluzione dell’Urss.

 C’è uno spazio fisico, un vuoto tra le quattro persone che si accingono a presentare le mostra e la folla degli studenti. Diciamo pure, c’è la doverosa distanza tra chi apprende e chi insegna. All’esterno della Facoltà ci sono manifesti degli ‘Indignados’ contro la crisi e la disoccupazione giovanile. I ragazzi della Sapienza non sono cambiati: contestatori, ma rispettosi della ‘distanza accademica’.

 I quattro sono: il rettore della Sapienza Luigi Frati, il padrone di casa. Esordirà dicendo in russo ‘Gospodin pamilumtsia’ (Signore perdonaci o qualcosa del genere) e poi proseguirà in italiano elogiando il lavoro dei fotografi della Novosti. C’è l’ambasciatore della Russia in Italia alexej Meshkov: a occhio e croce alto 1,85, ha il corpo di un medio-massimo sotto l’impeccabile completo blu ambasciatoriale.  Nel suo discorso, tutto in italiano, si sofferma sul cammino comune fatto da Italia e Russia nel tempo.  C’è il prorettore Antonello Biagini, responsabile per i rapporti  internazionali,  c’è il giornalista Sergey Startsev, direttore della Ria Novosti per l’Italia.

 Poco prima della cerimonia si avvicina a Scarfone una donna, una bella donna, e lo fissa dubbiosa con grande intensità. L’uomo si sente imbarazzato e chiede: ‘’Lei è per caso parente degli Ottaviano?’.

 La donna rimane zitta. Poi Scarfone sente per mezzo secondo un grido rabbioso: ‘Un colpo solo’. Certo, riconosce la donna e l’abbraccia con immenso affetto. Quella è Beatrice Ottaviano, ex capo di Ansa a Mosca, ora a Roma, incaricata di seguire la mostra fotografica sui vent’anni.

 Nella mia  casa a Mosca si riunivano di sera i giornalisti e tiravano con  una balestra vera contro il bersaglio inchiodato dietro la porta.  Ottaviano quasi sempre faceva centro. Il ruolo delle giornaliste italiane in Russia meriterebbe un libro: per la loro cultura, il coraggio, la femminilità nel Paese degli ussari e dei cosacchi.
Roberto Scarfone

Non ci sono state sorprese. La Commissione elettorale ha comunicato che a spoglio quasi ultimato il presidente uscente Emomali Rakhmon ha ottenuto l’83% delle preferenze, mentre gli altri 5 candidati non hanno superato il 5%. Come da tradizione l’affluenza alle urne è stata altissima e si è attestata oltre l’86% degli aventi diritto.

 Al potere dal ’92, Rakhmon ottiene così un nuovo mandato di 7 anni. Mai, nella sua storia post sovietica, in Tagikistan si è tenuto un ballottaggio. 500 circa sono stati gli osservatori internazionali presenti che hanno giudicato non positivamente le elezioni per “mancanza di una vera scelta”.

 L’unica candidata con qualche possibilità non è stata ammessa alle consultazioni.

 Paese montagnoso ai confini con l’Afghanistan, il Tagikistan è un passaggio obbligato per la droga verso i mercati ex sovietici. Le infiltrazioni estremistiche da sud sono state numerose in passato (un centinaio di tagichi combattono oggi in Siria con l’opposizione) ed il potere tiene sotto controllo i radicali.

 L’economia locale si sorregge sulle copiose rimesse degli emigranti andati a cercar fortuna all’estero, principalmente in Russia, che mantiene sul confine afghano un’importante base militare.

 A dieci anni dalla “Rivoluzione delle rose” la Georgia volta pagina: finisce l’era Saakashvili. Il Paese caucasico diventa contemporaneamente una repubblica parlamentare per l’entrata in vigore della riforma costituzionale del 2010. Geopresident

 23 erano i candidati in lizza, ma di questi soltanto tre avevano vere chance. Ossia il filosofo 44enne Georgy Margvelashvili  (rappresentante della coalizione Sogno georgiano ora al potere), l’ex speaker del Parlamento Nino Burjanadze (la “dama di ferro” della Rivoluzione delle rose del 2003 poi avversaria del capo di Stato uscente), il 41enne diplomatico David Bakradze (membro del Movimento Unito Nazionale di Saakashvili).

 Ha vinto Margvelashvili con oltre il 62% delle preferenze, secondo è arrivato Bakradze con il 21, quindi la Burjanadze con un po’ più del 9% dei voti.

 In campagna elettorale tutti i principali candidati avevano ribadito il corso di integrazione europea e nelle strutture dell’Alleanza atlantica intrapreso dal Paese caucasico, che, nell’agosto 2008, ha combattuto una disastrosa guerra contro la Russia in Ossezia meridionale.

 “Maggioranza ed opposizione – ha sottolineato Margvelashvili – sono d’accordo sulla direzione fondamentale del nostro sviluppo e sugli obiettivi della nostra politica esterna nazionale”.

 Il che potrebbe significare la firma del Patto di Associazione con l’Unione europea già il prossimo 28 novembre a Vilnius.

 La Burjanadze è stata l’unica a mostrarsi più dubbiosa sull’integrazione nella Nato. “Fino a che vi saranno truppe russe sul nostro territorio – ha evidenziato l’ex speaker del Parlamento – ci sono poche possibilità di aderire all’Alleanza. Non ci sono stati passi politici effettivi per negoziare con Mosca”.

 La Georgia è però un crocevia strategico fondamentale tra il mar Caspio ed i ricchi mercati occidentali. Da qui passano le principali pipeline tra Asia ed Europa. Ecco spiegata la grande attenzione prestata dalla comunità internazionale a queste elezioni.

 Avendo già svolto due mandati presidenziali, il giovane carismatico leader georgiano, Michail Saakashvili, non ha potuto partecipare alla consultazione.

 Con lui uscirà dalla vita politica attiva anche il suo principale avversario, l’attuale premier Bidzina Ivanishvili, che ha già annunciato le dimissioni per aver raggiunto i suoi obiettivi. Questo miliardario è infatti sceso in politica solo per dare al suo Paese un’alternativa al controverso Saakashvili, che ha dominato la scena nazionale dal 2003 con la Rivoluzione delle Rose, con cui di fatto spodestò dalla presidenza Eduard Shevardnadze, l’ex ministro degli Esteri di Gorbaciov.

 Lo scorso anno ad ottobre il suo partito Sogno georgiano ha nettamente vinto le parlamentari, sconfiggendo duramente il movimento di Saakashvili.

 “Per la prima volta – ha detto al suo seggio Ivanishvili – un candidato della compagine al potere non usa risorse amministrative per la sua campagna elettorale. Queste sono le prime elezioni di stampo europeo”.

 Dopo l’uscita dei due grandi avversari la Georgia comunque cambierà. Entrerà in vigore la riforma costituzionale che la fa diventare una repubblica parlamentare. Il presidente rimarrà formalmente il capo dello Stato, manterrà ampio spazio decisionale nella politica estera, ma il governo ed il primo ministro acquisiranno maggiori poteri rispetto al passato.

CONVEGNO INTERNAZIONALE

 Identità italiana: unità nella varietà

15-16 ottobre 2013

 Martedí, 15 ottobre

 10:00-10:30

10.30-10.45   

Apertura dei lavori del Convegno

Saluto del Magnifico Rettore dell’ RGGU Prof. Efim I. Pivovar

 Saluto del Direttore dell’Istuto Italiano di Cultura  Prof. Adriano dell’Asta

10.45-11.40

Piergabriele Papadia de Bottini, Console della Repubblica Italiana

Identita italiana ed Unita’ d’Italia: riflessioni dal punto di vista storico e linguistico. RGGUconvegno

11:40-12:00 – pausa caffè

12:00-14:00

Kirill Kholodkovskij

Variazioni dell’identità italiana nella storia

Irina Semenenko

Demarcazioni socioculturali nell’Italia contemporanea e orientamenti dell’identità politica

Valerij Ljubin

L’identità italiana vista dagli italiani

Mikhail Kabizkij

“La ricerca del popolo italiano” e la demoetnoantropologia

14:00-15:00 – pausa pranzo

15:00-16:25

Mikhail Andreev

L’ultimo classico: Benedetto Croce

 Kirill Checalov

L’italiano demoniaco della letteratura popolare dei secoli XVIII e XIX

 Natalia Mazur

“Il tuo Buonarroti”, Michelangelo Buonarroti nell’opera di Osip Mandelštam

 16:25-16:40 – pausa pranzo

16.40-18.00

Tatiana Bystrova

L’immagine dell’Italia nel romanzo di Giuseppe Genna “Italia de profundis”

 Vladimir Smirnov

Dialetto come costante della cultura italiana: lingua e dialetto nell’estetica di Luigi Pirandello

Elena Okhotnikova

Scenografia dell’Unità: il Liberty come primo stile della nuova Italia: mitologia dell’immagine e della ricezione di memoria culturale nella seconda metà del XX secolo

Mercoledí, 16 ottobre

 10:30 –12:20

Marina Bakhmatova

Alle origini della formazione dell’identità italiana: Genova, Venezia e Bisanzio nel XIII secolo

Irina Celyševa

L’Italia e la lingua italiana agli occhi dell’Europa medievale

Anna Pozhidaeva

Specificità della formazione di iconogafia dei giorni della Creazione in Italia

Anna Toporova

Topos dell’unità nella letteratura italiana medievale

12:20-12:40 – pausa caffè

12:40-14:10

Tatiana Matasova

L’immagine degli Stati italiani nella Rus’ Moscovita dalla metà  del XV secolo ai primi decenni del XVI secolo

Mikhail Šumilin

L’identità nazionale nella “Vertunniana” di Annia da Viterbo,  XV secolo

Grigorij Vorobiev

L’immagine italiani nelle opere dell’umanista bizantino Teodoro Gaza

14.10-15.00 – pausa pranzo

15.00-17.00

Liubov Zholudeva

La concettualizzazione linguistica dell’identità italiana nelle opere  linguistiche del Cinquecento

Irina Zvereva

Le strategie di traduzione come espressione dell’identità nazionale. Storia delle traduzioni di Shakespeare in Italia

Ksenia Mitokhina

La singolare esperienza delle colonie italiane in Crimea: passato e presente

Olga Gurevich

“Perché siamo italiani?” riflessioni di emarginati (diari e lettere di ebre italiani 1938-1945)

Chiusura dei lavori del Convegno

AsiloRossosch2

 Grandi manifestazioni sul Don per il 20esimo anniversario della costruzione dell’Asilo a Rossosch, Voronezhskaja oblast (circa 750 chilometri a sud da Mosca). Quasi un migliaio di alpini con le loro famiglie sono giunti in queste terre lontane per celebrare la ricorrenza.
Come si ricorderà, la struttura fu costruita sul luogo, dove sorgeva il Comando alpino durante la Seconda guerra mondiale. Subito dopo la caduta del Muro di Berlino gli italiani sono tornati quaggiù, dove migliaia di connazionali riposano in pace.
La costruzione dell’Asilo, al cui interno si trova il Museo del Medio Don – diretto dal prof. Alim Morozov, è stato l’ulteriore dimostrazione della riappacificazione tra i due popoli divisi dalla tragedia della guerra voluta dagli opposti totalitarismi.
Il centro dei festeggiamenti è l’Asilo. E’ previsto anche un concerto in piazza Lenin, con la partecipazione di un coro degli alpini ed artisti locali. Gli ospiti italiani hanno visitato venerdì le rive del Don distanti alcune decine di chilometri ad est da Rossosch e domenica Nikolajewka (oggi Livenka), circa 150 chilometri ad ovest del capoluogo provinciale.

Giuseppe D’Amato

C’è anche la “risorgente” Russia nella partita mediorientale e con lei bisogna fare i conti. Non solo al Consiglio di Sicurezza dell’Onu ma anche in campo militare. Se il regime di Bashar Assad è ancora al potere un non piccolo merito lo si può attribuire a Vladimir Putin. AssadPutin
Mosca si è incaponita nella difesa del suo storico alleato siriano per due fondamentali ragioni, entrambi di carattere geostrategico.
La prima è che, una volta caduta Damasco, dopo toccherà all’Iran. I russi vedrebbero gli occidentali avvicinarsi tremendamente alle frontiere meridionali ex sovietiche. A chi farebbe piacere avere come vicino un ex avversario della Guerra Fredda che porta il nome di Nato, ossia Alleanza atlantica?
La seconda ragione è che più si impegnano gli occidentali in scenari lontani da casa più si ritarda la loro infiltrazione nel cuore degli interessi del Cremlino, nel cortile di casa, lo spazio ex sovietico.
Considerazioni di ordine pubblico interno, poi, non sono secondarie. Per tutti gli anni Novanta i russi hanno combattuto contro l’estremismo religioso islamico che ha infuocato il Caucaso settentrionale ed ha rischiato di mettere radici persino nel “ventre mollo” del gigante slavo, lungo il corso del Volga, nelle repubbliche ricchissime di petrolio del Tatarstan e della Bashkiria.
Aleppo è a solo 900 chilometri dal Caucaso. Se la Siria capitolasse da lì potrebbero arrivare nuovi mujaheddin, già sconfitti in passato in Cecenia, o semplici mullah a predicare ai circa 20 milioni di musulmani russi un tipo di Islam non più secolare come quello ex sovietico. Il numero di donne che portano oggi il velo in Russia è già aumentato enormemente, tanto che per il nuovo anno scolastico sono diventate obbligatori grembiuli e vestiti elencati in liste “dress code”.
L’aspetto economico-commerciale nella posizione del Cremlino sullo scenario mediorientale è altrettanto importante. La Siria compra da decenni miliardi di dollari in armi russe, mentre l’Iran ha acquistato da Mosca tecnologia nucleare.
Nelle scorse settimane è filtrata la notizia, non confermata chiaramente, che il principe saudita Bandar al Sultan, capo dei servizi segreti sauditi, abbia offerto 15 miliardi di dollari per convincere Vladimir Putin ad abbandonare Assad. Riad vorrebbe diventare un acquirente di armi russe sofisticate, che, secondo le intelligence israeliana ed occidentali, sono state, comunque, consegnate ad Assad, malgrado i vari divieti internazionali. In primo luogo le difesa aeree anti-missilistiche S-300 e quelle navali, che costringeranno le unità americane a starsene lontano dalle coste.
Il fronte dell’opposizione avrebbe promesso, tra l’altro, di lasciare ai russi l’uso del porto di Tartus, utilizzato come scalo nel Mediterraneo, evitando il passaggio sul Bosforo.
Il Cremlino per ora fa spallucce. Se dopo la Siria cadesse anche l’Iran gli occidentali avrebbero la possibilità di rivoluzionare il mercato energetico. Finalmente si troverebbe il gas sufficiente, necessario per ridare vita al progetto Nabucco e l’Europa sarebbe ancora meno dipendente dalle forniture russe.
In sintesi, Mosca sta combattendo in Medio Oriente una battaglia strategicamente vitale. In palio vi è il suo status di potenza regionale in questa porzione di mondo.
Una sua squadra navale, proveniente dal Pacifico, è arrivata nelle scorse settimane in zona. La sua potenza di fuoco è infinitamente inferiore a quella statunitense. Il suo compito è duplice: essere pronta ad evacuare i circa 20mila connazionali; mostrare all’opinione pubblica che la Russia è ancora viva.
Putin conosce bene i limiti del suo Paese e non andrà oltre. Sa perfettamente che la Russia post ’91 non è nemmeno lontana parente dell’Unione Sovietica della Guerra Fredda.
Giuseppe D’Amato

 Qualsiasi decisione rischia di essere sbagliata. Il pericolo di passare dalla padella alla brace è dietro l’angolo. Ma lo si sapeva fin dallo scoppio della crisi, purtroppo. La “palude” siriana, con il suo crogiuolo etnico e confessionale, non ha forse vie d’uscita.  SyriaMapfromWikipedia
Non sorprende che alcuni autorevoli commentatori conservatori americani sostengano, ancor oggi, che sarebbe necessario intervenire soltanto in un futuro all’apparenza non prossimo, quando i fronti belligeranti – pro e contro Assad – cadranno prostrati a terra dalla fatica. Tradotto volgarmente: che si scannino pure, tanto laggiù non c’è il petrolio!
Sono troppe le partite che si giocano contemporaneamente, in Siria. Le principali sono tre. Una interna al mondo islamico, già osservata in Iraq, con i sunniti contro gli sciiti. Una esterna, geostrategica, in cui su un campo si fronteggiano occidentali e russo-cinesi e su un altro le potenze regionali emergenti (Arabia Saudita, Qatar, Turchia, Iran). La terza, tragica, umanitaria.
La seconda è in questo momento predominate. L’attacco chimico contro i civili è un’atrocità da Tribunale internazionale, ma in Siria fino a ieri non si scontravano degli angeli. Nel silenzio assordante della Guerra Fredda, ad inizio anni Ottanta, Assad padre fece tra 40 ed 80mila morti per sedare la rivolta sunnita. Il figlio ha battuto tutti i record. Altro elemento da considerare è che certe armi proibite sono già state utilizzate nei mesi passati, mentre il mondo faceva finta di niente.
La novità è semmai un’altra: Barack Obama si è reso conto che i russi, grandi protettori di Assad per mille pratiche ragioni, non sono partner affidabili e, dopo il caso Snowden, ha cambiato strategia, accelerando l’opzione militare.
La Casa bianca ha capito che il Cremlino non spingerà i tasti giusti in Medio Oriente, finché non si sentirà con le spalle al muro. Dislocando alcune unità della flotta Usa nel mar Mediterraneo orientale, Obama mostra i muscoli, lasciando intendere che ha perso la pazienza.
Attaccare da solo, dopo che le televisioni di mezzo mondo hanno già raccontato tutto al nemico, pare un azzardo dai risultati lacunosi. Rimanere lì con il fucile puntato potrebbe dare dei frutti migliori. Primo fra tutti, diplomatico.
Non è un caso che i russi, risvegliatisi d’impeto dopo settimane di nulla, abbiano richiesto una riunione d’emergenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu, presentando una propria mozione. Dopo mesi nel dimenticatoio si riparla di Ginevra-2, ossia di Conferenza di pace per la Siria, finora bloccata dai veti incrociati. Non è nemmeno una coincidenza che Mosca abbia davanti a Tartu una squadra navale, dalle potenzialità invero limitate, proveniente dal Pacifico.
Obama ha già cancellato il vertice bilaterale al Cremlino con Putin, ma è stata annunciata la sua presenza a San Pietroburgo per il G20. Se i due leader in riva al Baltico non troveranno una qualche intesa saranno dolori non solo in Siria.

Giuseppe D’Amato

Sono passati 9 anni da quelle tragiche giornate a Beslan. Da allora il ritorno a scuola per gli studenti russi e per l’intero Paese non è più la festa di prima. L’incubo di quelle drammatiche ore viene rivissuto sui giornali ed in televisione. Manifestazioni vengono tenute ovunque nel gigante slavo. Il ricordo di quell’orrore non deve sopirsi, è il desiderio della società federale. beslan1
La strage di Beslan ha segnato la vera fine del terrorismo nel Caucaso russo. Quel marchio di infamia, determinato dalla morte di centinaia di bambini inermi in una scuola, ha sancito la perdita di fiancheggiatori e sostegni interni ed esterni alla causa separatista ed estremista.
La regione, crogiuolo di etnie spesso nemiche tra di loro appartenenti a diverse confessioni religiose, è stata inondata dai petro-rubli dal Centro moscovita. La disoccupazione è un po’ diminuita, ma la pesante situazione socio-economica rimane inalterata.
La Cecenia è stata quasi completamente ricostruita ed è governata oggi con metodi criticati dalle organizzazioni umanitarie da Ramzan Kadyrov. La vicina Inguscezia gode di una certa stabilità grazie al prestigio del presidente Evkurov, eroe russo in Kosovo negli anni Novanta.
L’Ossezia settentrionale, a parte la tragedia di Beslan, è riuscita a restare fuori sia dall’incendio ceceno che dalla successiva guerra nel 2008 con la Georgia.
Per il Cremlino i problemi restano in Kabardino-Balkaria, ma soprattutto in Daghestan, dove non passa giorno che si ha notizia di un attentato. La strategia di attaccare la popolazione civile per seminare terrore è stata comunque sconfessata.

Giuseppe D’Amato

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