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 Un primo colpevole siede in prigione da venerdì scorso. Dmitrij Pavljuchenkov è stato condannato ad 11 anni di colonia penale a regime duro. E’ stato provato che l’ex ufficiale di polizia ha pedinato per giorni la giornalista ed ha fornito al killer l’arma del delitto.
Pavljuchenkov non ha, però, fatto il nome dell’assassino né tanto meno quello dei mandanti. Ha raggiunto un accordo preventivo secondo il quale lui ammetteva quanto attribuitogli, evitando di testimoniare pubblicamente in aula.
Questa scelta della Procura ha provocato polemiche a non finire, ma l’obiettivo di tale decisione è stato quello di arrivare ad una svolta per stabilire un primo punto fermo, dopo anni in cui gli inquirenti hanno letteralmente brancolato nel buio.
Pavljuchenkov si è fatto soltanto scappare di bocca che prima dell’omicidio non erano solo i “criminali” a seguire la scomoda giornalista, famosa per le sue inchieste sul malaffare e per le sue posizioni anti-Cremlino, ma anche vari “servizi”.
Da qui la conferma di quanto da sempre affermato dalla famiglia Politkovskaja, ossia che dietro all’uccisione della congiunta si celi un vero complotto.  Come si ricorderà la reporter venne uccisa sul pianerotto dello stabile in cui aveva affittato nel centro di Mosca un appartamento il 7 ottobre 2006.
Nel 2009 sono stati processati tre fratelli ceceni, poi assolti per mancanza di prove. Secondo gli investigatori Rustam Makhmudov sarebbe stato il killer della giornalista, mentre gli altri due avrebbero avuto il compito di palo ed autista del commando.
Il terzetto, insieme al condannato Pavljuchenkov, sarebbe stato al soldo di un boss loro connazionale, tale Lomali Gaitukaiev, adesso in galera per altri reati. Un altro figurante in questa vicenda è un secondo poliziotto, che avrebbe fornito al gruppo di fuoco aiuto logistico.
In sintesi, se più o meno gli inquirenti sono riusciti a ricostruire la scena del delitto è invece buio fitto sui mandanti. In passato Dmitrij Muratov, il direttore della Novaja Gazeta, la testata per la quale lavorava la reporter uccisa, ha puntato il dito contro le autorità, sostenendo che esiste “un tabù politico” che blocca l’identificazione di chi ha materialmente pagato il commando.
Impossibile capire anche il movente dell’omicidio. La Politkovskaja aveva nemici ovunque, nella galassia della criminalità organizzata ed in quella dei servizi deviati, in Russia come in Cecenia.

 Ad Anapa sul mar Nero si è tenuta la cerimonia della posa della prima pietra. Negli ultimi mesi la Gazprom ha proceduto a tappe forzate per arrivare all’inizio dei lavori. Uno degli obiettivi della decisione è stato quello di evitare che il Terzo pacchetto energia dell’Ue potesse bloccare o comunque ostacolare il progetto.
La potenzialità della pipeline, che cambierà le strategie per l’approvvigionamento di energia sul corridoio sud europeo, è di 63 miliardi di metri cubi di gas all’anno (circa il 10% del consumo totale di gas in Europa nel 2020). Il costo finale 16 miliardi di euro. Tempo di costruzione: 3 anni. Il South Stream evita il transito in Ucraina, protagonista di ben due guerre del gas con Mosca.
In un incontro con la stampa Marcel Kramer, amministratore delegato di South Stream Transport – il consorzio tra Gazprom (50%), Eni (25%), Edf (15%) e Wintershall (15%), preposto a realizzare il tratto offshore – ha definito la pipeline un “progetto visionario” per impegno economico e importanza strategica.
Stando alle stime dell’Agenzia internazionale dell’Energia (Iea), la domanda di gas naturale in Europa e’ destinata a salire dai 536 miliardi di metri cubi, del 2010, a 618 miliardi, nel 2035. Un aumento, all’incirca, del 15%.
Posato a una profondità massima di oltre 2.000 metri, il South Stream percorrerà 925 chilometri sotto il livello del mare, collegando Anapa con il porto bulgaro di Varna, attraverso le acque territoriali turche. Il percorso totale (2.600 chilometri), nella sua tratta onshore (1.455 chilometri), comprende anche: Serbia, Ungheria, Slovenia e Italia. Capolinea del South Stream sarà Tarvisio.

 Israeliani e palestinesi hanno i soliti scontri ciclici. In Siria assistiamo ad una guerra tra arabi. Il Cremlino difende nella regione i suoi tradizionali alleati. Questo è il quadro tracciato da Adzhar Kurtov, uno dei massimi esperti russi di Medio oriente.
“A Gaza – sostiene lo specialista dell’Istituto di ricerche strategiche di Mosca – si è osservato una lotta tra impari: una parte (gli israeliani) armata di tutto punto, l’altra (i palestinesi) no. Adesso tutto tornerà come prima, fino ad una prossima campagna”.
Certo, molte delle armi di Hamas sono state distrutte. Ma quale è il vero ruolo della Russia nello scacchiere mediorientale? “La Russia ha una posizione chiara sulla crisi siriana. Primo: blocco delle interferenze esterne con aiuti ai gruppi armati. Siamo di fronte ad una vera aggressione, non nascondiamocelo. Secondo: ricerca di una soluzione negoziale. Se il recente cambio di Costituzione non va bene serve definire una nuova Legge Fondamentale. Che si tengano le elezioni! Ormai vi sono gruppi di Paese, mi riferisco a quelli del Golfo in particolar modo, che riconoscono un altro governo siriano”.
Mosca mantiene ancora una qualche influenza nell’area? “La Russia non è più l’Urss. Ha meno influenza come hanno dimostrato le recenti ‘primavere’ arabe. Il Cremlino rimane però fermo sulle proprie posizioni. Prima fra tutte: difendere i propri alleati. Poi mettere il diritto internazionale davanti a qualsiasi crisi. E’ vero l’export russo di armi è importante. Ma i nostri primi compratori sono gli indiani e i cinesi”.
Non è che i Paesi del Golfo abbiano colmato quel vuoto di influenza nel Medio oriente lasciato vacante dall’Urss? “Stiamo assistendo ad uno scontro all’interno del mondo arabo. I Paesi più conservatori, mi riferisco al Qatar ed all’Arabia Saudita (entrambi sunniti), cercano di regolare i propri conti con gli sciiti. Le operazioni in Siria mirano a colpire il maggiore alleato dell’Iran (sciita). Come tutte le guerre religiose anche questa è cruenta”.
L’Occidente sembra rimasto in disparte a guardare. “Gli Stati Uniti sono interessati all’indebolimento del regime degli ayatollah ed alla sua sostituzione a Teheran con uno pro-occidentale. Il rischio di perdere il controllo della situazione è alto. L’Afghanistan dei talebani insegna qualcosa, no? A Washington, però, si è convinti di creare ad altri i problemi, non a sé stessi”.
In conclusione, tornando alla questione di Gaza come finirà? “Non credo che nel breve periodo vedremo due Stati, uno israeliano ed uno palestinese. Non v’è alcuna volontà di riconciliazione. Al massimo si potranno congelare i dissidi”.

 Il pugile ed il calciatore. Gli “eroi” nazionali, oggi divisi dalle elezioni legislative. Vitaly Klitschko ed Andriy Shevchenko sono i due volti nuovi della politica ucraina, da anni dominata – dopo l’eclisse del “padre” della “rivoluzione arancione” Viktor Jushenko – dallo scontro senza confini tra il presidente Viktor Janukovich e l’ex premier, ora in carcere, Julija Timoshenko.
  L’ex campione del mondo dei pesi massimi è il leader del partito Udar (ossia, colpo) ed è destinato a diventare il capo dell’opposizione. Se non farà errori probabilmente sarà lui ad essere il candidato da battere alle prossime presidenziali.
 L’ex capocannoniere di Milan e Chelsea è, invece, il “numero due” nella formazione “Avanti Ucraina!” di Nataliya Korolevskaya e se la sua compagine supererà la fatidica barriera del 5% per avere una rappresentanza in Parlamento Shevchenko diventerà deputato.
  Non è la prima volta che nell’ex Urss le “stelle” dello sport entrano in politica. Oleg Blokhin, bomber indimenticabile della grande Dinamo poi selezionatore della squadra nazionale agli ultimi Europei, è stato per ben due volte parlamentare tra le file dei social-democratici. Pochi giorni fa un altro ex calciatore, Kakha Kalaladze, già compagno di squadra di Shevchenko alla Dinamo Kiev ed al Milan, è stato addirittura nominato ministro dell’Energia e vice-premier nel nuovo governo georgiano.
  “Andiamo in Parlamento – ha picchiato duro Klitschko, con un passato da eletto nel Consiglio comunale di Kiev ed un forte impegno nel sociale, – non per cambiare i maiali, ma per togliere loro la mangiatoia!”
 Assai più diplomatico Shevchenko, che pare trovarsi non a proprio agio nel clima da rissa imperante da sempre sulla scena politica nazionale. “Vogliamo cambiare il Paese – ha spiegato l’ex bomber -. Il mio compito è costruire le infrastrutture”. Con Berlusconi Shevchenko si telefona, ma per ora non ha chiesto consigli.
  I due “eroi” ucraini in passato hanno collaborato per varie iniziative sociali, ma questa volta si sono praticamente ignorati. Anzi, Klitschko ha rifiutato di partecipare ad un incontro pubblico col calciatore per dibattere su giovani e sport. 
  La ragione della sua decisione è semplice. “Avanti Ucraina!”, formatasi da una costola fuoriuscita da “Patria”, la compagine della Timoshenko, rischia di fare il gioco della formazione di Janukovich, “il partito delle Regioni”, togliendo voti all’opposizione. I sondaggi sono chiarissimi. A fronte di un 24% di indecisi, i “blu” del presidente sono al 23%, Udar al 16, “Patria” al 15 ed i comunisti al 10. Solo l’8,8% degli ucraini crede che queste legislative saranno pulite. Migliaia sono gli osservatori presenti.
 Sia Unione europea che Russia guardano alla consultazione con interesse. L’Ucraina è ad un passo dalla firma di uno strategico patto di Associazione con Bruxelles ed è stata invitata allo stesso tempo da Mosca a far parte della nascente Unione doganale, una mini-Urss economica, simile alla CEE. Se il “giro di vite”, imposto al Paese da Janukovich, non è piaciuto agli occidentali Vladimir Putin spera adesso di riportare Kiev nella propria orbita.
  L’economia dell’ex repubblica sovietica, però, non va. Un prestito dell’Fmi è bloccato da anni e si rincorrono voci di una prossima svalutazione della grivnia.
  Questa volta Janukovich dovrà stare più attento. L’opposizione ha trovato un peso massimo e Klitschko si prepara già ai proverbiali corpo a corpo alla Rada, famosa in tutto il mondo per le più incredibili zuffe tra deputati.

Giuseppe D’Amato

 

 Dopo anni il grande “Progetto” sta andando in porto. Il Cremlino affianca alla monopolista del gas Gazprom il nascente gigante del petrolio Rosneft. La Russia si afferma così sempre più come esportatrice di materie prime. Ma non solo. L’obiettivo primario di riuscire a condizionare in qualche modo i prezzi a livello internazionale potrebbe avvicinarsi.
Da un paio di settimane il mondo della finanza e quello dell’energia sono letteralmente in subbuglio per la seconda maggiore fusione di compagnie petrolifere nella storia dopo quella del 1999 tra la Exxon e la Mobil.
Il colosso petrolifero Bp ha appena firmato l’accordo di massima con Rosneft per la vendita del 50% della joint venture TNK-BP. In cambio i britannici otterranno il 19,75% del capitale del neogigante russo e 12,3 miliardi di dollari in contanti. In futuro potranno contare su due posti (su un totale di nove) nel consiglio di amministrazione della Rosneft.
In parole povere la Bp esce da una società mista (la TNK-BP) con dei litigiosi miliardari russi, con cui i rapporti erano stati tesissimi, ed acquisisce quote in una società semi-pubblica – dove il Cremlino farà il bello ed il cattivo tempo -, ma con cui sono previsti importanti progetti per lo sfruttamento delle risorse dell’Artico.
La Rosneft chiaramente compra anche la quota di TNK-BP in mano ai miliardari russi, diventando la maggiore compagnia mondiale quotata per l’estrazione di petrolio (oltre 4 milioni di barili al giorno). L’intera Arabia Saudita ne produce circa 10.
Dopo il crollo dell’Urss nel 1991 il governo federale era riuscito a mantenere solo il controllo del mercato del gas, poiché troppo condizionato dalle poche condotte esistenti verso occidente. Quello del petrolio era finito in mani private o addirittura straniere.
La triste vicenda con al centro l’ex oligarca Michail Khodorkovskij, proprietario della maggiore compagnia privata del Paese – la Yukos -, ha riaperto i giochi. Dopo che il magnate è stato incarcerato in Siberia e la sua società smembrata, la Rosneft ne ha incamerato i bocconi più ghiotti a partire dal 2004.
Il Cremlino, in sintesi, riesce a riportare sotto il proprio controllo un’ampia fetta del mercato del petrolio nazionale. La “mente” dell’operazione è stata Vladimir Putin, ma il braccio operante è sicuramente il potentissimo Igor Sechin, anch’egli con un passato nel Kgb.
Tutti gli attori in causa alla fine paiono guadagnarci qualcosa, ma chissà se i compratori del petrolio russo saranno contenti. E’ difficile che lo siano, considerando gli enormi volumi che la Rosneft sarà in grado di gestire. Soltanto i prezzi alti dell’“oro nero” potranno permettere sia di garantire il bilancio statale russo (oggi il 55-60% delle entrate totali viene dal settore energia) sia di poter far fronte alle spese stratosferiche di estrazione nelle zone più remote del pianeta.
Alcuni analisti, però, buttano acqua sull’entusiasmo. I costi della fusione sono altissimi e negli ultimi anni la Rosneft non ha registrato profitti come la TNK-BP.

 Il partito vicino al presidente Saakashvili ha clamorosamente perso le legislative. Troppe sono state nel recente passato le promesse mancate in campo socio-economico insieme alla macchia indelebile di aver scatenato nell’estate 2008 una disastrosa guerra, persa contro la Russia per riconquistare la provincia ribelle dell’Ossezia meridionale.
Non appena le litigiose opposizioni sono riuscite a trovare un vero leader i georgiani gli hanno accordato fiducia. La capitale Tbilisi ha votato compatta per il miliardario Ivanishvili, mentre la provincia solo in parte. Il 44enne Michail Saakashvili rischiava di diventare eccessivamente ingombrante non solo per la sua prestanza fisica.
Il 2013 è un anno cruciale per il Paese caucasico. L’eroe della “rivoluzione delle rose” concluderà il suo secondo ed ultimo mandato presidenziale (diventando ineleggibile) ed entrerà in vigore la nuova Costituzione che ridistribuisce i poteri. La Georgia si trasforma in repubblica parlamentare con il primo ministro ad avere prerogative quasi più importanti del capo dello Stato. Grande era, quindi, il pericolo che a Tbilisi andasse in onda una “mossa alla Putin” in cui un leader esce dalla porta principale e rientra dalla finestra.
Diciamolo subito: chi scrive non ha mai avuto simpatia per la “rivoluzione delle rose”, primo cambio di dirigenza pro-occidentale attraverso la piazza nello spazio ex sovietico nel 2003, in tutto simile all’analogo colpo di mano di Belgrado contro Milosevic del ‘99. Saakashivili andò al potere rovesciando il suo maestro e mentore, nonché padrino di suo figlio, Eduard Shevardnadze, uno dei pochi democratici della leadership sovietica che volle la fine della Guerra Fredda. L’uso sapiente dei nuovi mass media e l’appoggio giusto nelle cancellerie statunitense ed europee fecero passare l’ex ministro degli Esteri di Gorbaciov per “un dittatore”, un “dinosauro d’altri tempi”, dimenticando invece che era il garante di una precaria pace in un Paese sconvolto dalla guerra civile e dalle mafie.
Dopo aver litigato negli anni con tutti i suoi alleati politici Saakashvili ha ora perso gli appoggi in Occidente, che ha puntato su Ivanishvili ricevendo in cambio garanzie sul futuro transito delle materie prime dal mar Caspio fino ai ricchi mercati europei. Il miliardario continuerà la politica di avvicinamento a Bruxelles ed alla Nato, ma tenterà anche di riallacciare le secolari relazioni con la Russia, vicino accomunato da una comune storia e dalla fede ortodossa.
Garantire adesso un tranquillo passaggio di potere sarà il compito primario di Saakashvili, che dovrà una volta tanto mantenere le promesse e assicurarsi un’onorevole uscita di scena.
Sin dalla primavera 1989 i georgiani hanno lottato per la democrazia e sono stati un esempio nell’Urss. Ora paiono esserci riusciti: il tempo dei kalashnikov, dei brogli elettorali e dei golpe di piazza a Tbilisi è davvero finito.
Giuseppe D’Amato

 Intimidazioni, arresti di oppositori, litigi geopolitici. Ad ogni elezione in Bielorussia va in scena sempre lo stesso canovaccio. Non fanno eccezione le legislative di quest’anno.
Da martedì 18 settembre hanno già usufruito del voto anticipato ben il 20% degli aventi diritto. Secondo varie denunce le urne con le schede al loro interno rimarrebbero senza controllo e qualsiasi tipo di broglio sarebbe possibile.
Sono oltre trecento i candidati che si contendono i 110 seggi parlamentari. Dovranno vincere con la maggioranza assoluta nella propria circoscrizione e sperare che l’affluenza alle urne sia superiore del 50% degli aventi diritto. Altrimenti sarà necessario un secondo turno.
I candidati vicini al presidente Lukashenko sono destinati a far man bassa di mandati parlamentari. Le opposizioni hanno infatti ritirato i propri rappresentanti a pochi giorni dal voto. “Queste sono state la peggiore campagna elettorale e le peggiori legislative di sempre”, la loro giustificazione.
Dal 1996 Unione europea, Stati Uniti ed Osce non riconoscono la validità delle elezioni bielorusse, minate da palesi violazioni e lontanissime dagli standard internazionali.
Questa volta una missione dell’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, è stata invitata a presenziare alle legislative. Ma a due suoi osservatori (un tedesco ed un lituano) non è stato inspiegabilmente concesso il visto di ingresso.
Ad inizio settimana alcuni giornalisti stranieri, che avevano partecipato ad un incontro organizzato dalle opposizioni, sono finiti dietro alle sbarre. Ad un australiano della SBS è stata sequestrata l’intera attrezzatura all’aeroporto di Minsk.
Da anni Lukashenko ed alcuni alti funzionari bielorussi non possono mettere piede in Unione europea e negli Stati Uniti, dove sono stati dichiarati “persone non benvenute”.
Rispetto ad un paio di anni fa la situazione economica è migliorata anche se l’economia bielorussa rimane sull’orlo dell’abisso. Finora Minsk si è salvata soltanto grazie all’aiuto finanziario di Mosca, che teme di trovarsi alle frontiere un governo pro-occidentale. In cambio di questo sostegno la Russia si è comprata gli oleodotti e i gasdotti in transito sul territorio bielorusso verso l’Europa.

 Quando sono entrate nella Cattedrale di Cristo il Salvatore le Pussy Riot erano delle perfette sconosciute, oggi sono famose in tutto il mondo.
Formatosi nell’agosto 2011, il gruppo punk-rock femminista ha scelto la strada della provocazione e dello scandalo per imporsi. In pratica, la stessa   strategia pubblicitaria seguita dalle colleghe ucraine protettrici dei diritti delle donne, “Femen”, che si mostrano nude ad ogni occasione pubblica utile. L’uso sapiente di Internet ha poi fatto il resto.
Adesso, dopo sei mesi di reclusione preventiva, le massime star musicali mondiali si sono mobilitate per la loro liberazione, fior di impresari se le contendono tenendo pronti assegni pieni di zero e giovinastre impertinenti imitano il loro canto anti-potere in giro per l’Europa.
Proprio giovedì 16 il marchio “Pussy Riot” è stato ufficialmente registrato. In Russia diventerà uno dei simboli della protesta anti-Cremlino soprattutto a partire dall’autunno che si attende assai caldo, mentre all’estero sarà un “brand” dell’anti-potere, degli anti-globalisti, sostengono gli esperti.
Le tre ragazze hanno insomma vinto alla lotteria ed, appena fuori di galera, potranno godersi una montagna di soldi. Le offerte di lavoro non mancano, nonostante, a giudicare dai video, non sappiano poi cantare e ballare così bene (hanno un repertorio assai limitato) e non siano delle bellezze di prima grandezza.

La più disinibita delle tre, la ventiduenne Nadezhda Tolokonnikova, ha appena ricevuto l’invito a posare senza veli per l’edizione ucraina di “Playboy”. In passato la ragazza, appena diciottenne, era entrata nelle cronache scabrose della capitale russa per aver partecipato in un museo  ad una mega-orgia.
L’evento, denominato “Fotti l’orso”, era stato organizzato da un gruppo art “Vojna”, di cui faceva parte il marito, Piotr Verzilov. L’obiettivo era quello di protestare contro il passaggio di poteri al Cremlino tra Putin e Medvedev (cognome che assomiglia alla parola “orso”).
Nadezhda, studentessa di filosofia, era in cinta di nove mesi e quattro giorni dopo l’orgia aveva dato alla luce la figlia Geru. Le foto, in cui era impegnata in esibizioni erotiche, avevano provocato discussioni a non finire.
Nel 2010 la ventenne ha partecipato ad altre azioni clamorose, come quella di lanciare degli scarafaggi all’interno di un edificio dove ha sede un tribunale di Mosca o di disegnare un enorme fallo su un ponte a San Pietroburgo. Per l’ultima eroica azione Nadezhda ha ricevuto il premio “Innovazione”.
Chi la conosce la descrive come una provocatrice professionista, abilissima nel far cadere gli avversari nei suoi tranelli, una persona che sa esattamente quello che fa. Il Cremlino e la Chiesa ortodossa sono finiti nella sua trappola, trasformando con questo processo-scandalo delle sconosciute in eroine.

 “Vergogna! Vergogna!”. La folla urla indignata all’esterno del Tribunale. “Basta con lo stato di polizia”, uno degli slogan più ripetuti. Il giudice Marina Syrova ha appena letto la prima parte della sentenza in cui si condannano le Pussy Riot per “teppismo motivato da odio religioso”.
Nadezhda Tolokonnikova, Ekaterina Samutsevich e Maria Alekhina non fanno una piega. Anzi, ad un certo punto iniziano a sorridere a destra e a manca. Le tre componenti del gruppo punk-rock non si erano di certo fatte illusioni. Lo sapevano che le attendeva un soggiorno nelle patrie galere.
Rischiavano ben sette anni di carcere. Decisamente troppi! Tanto che il presidente Putin in persona era intervenuto pubblicamente nei giorni scorsi per chiedere clemenza alla corte.
Come si ricorderà il 21 febbraio, in piena campagna elettorale, le Pussy Riot sono entrate nella Cattedrale moscovita di Cristo il Salvatore – tempio principale dell’ortodossia russa – e davanti ad uno degli altari hanno inscenato una canzone-preghiera punk, registrata in video e postata su Internet, con la famosa invocazione “Vergine Maria, liberaci da Vladimir Putin”. Dopo qualche giorno sono state arrestate.
Il giudice Syrova ha spiegato che le tre imputate hanno offeso i sentimenti dei fedeli ortodossi ed hanno mostrato una “completa mancanza di rispetto”. Il loro reato è evidente: “hanno violato gravemente l’ordine pubblico”. Le testimonianze dell’accusa sono state citate e si è sottolineato che l’atto è stato “blasfemo” e non politico, poiché la famosa invocazione alla Madonna sarebbe stata inserita in un secondo momento, durante il montaggio del video, e non pronunciata nella cattedrale.
Ed in effetti le Pussy Riot, come loro stesse hanno ammesso nel corso del dibattimento processuale, ce l’avevano soprattutto con il patriarca Kirill, che aveva pubblicamente sostenuto la candidatura di Putin al Cremlino.
In queste ultime settimane sono comparse divisioni inattese nel mondo religioso. Se alcuni esponenti ufficiali ortodossi chiedevano la condanna delle tre ragazze un folto gruppo di sacerdoti ha sottolineato con dichiarazioni alla stampa che una delle funzioni pastorali è quella del perdono e non della condanna dei peccatori.
La galassia liberal-riformista anti-Cremlino ha, invece, definito il processo contro le Pussy Riot come qualcosa di simile all’“Inquisizione” spagnola per il tipo di accuse rivolte alle tre imputate.
“Come la maggior parte dei processi politici – ha commentato Ljudmila Alekseyeva, presidente del gruppo di Helsinki per i diritti umani -, questo processo non rispetta la legge, il buonsenso, la pietà”. Molto perplesso è apparso anche l’ex leader sovietico Michail Gorbaciov, secondo cui questo dibattimento si sarebbe dovuto svolgere non in un’aula di tribunale bensì in una commissione speciale.
In un messaggio fatto pervenire ai mass media attraverso i suoi avvocati Nadezhda Tolokonnikova ha affermato che “la nostra incarcerazione è il chiaro segnale che la libertà è stata scippata al nostro Paese”.
Con una Russia in preda a forti paure per il futuro e preoccupata per la recente approvazione di una serie di leggi liberticide, ci mancava proprio questo processo-scandalo, ennesimo segnale negativo della crisi psicologica e politica, in cui è sprofondata l’ex superpotenza da un anno a questa parte. Ossia da quando uno stanco Vladimir Putin ha scelto di tornare alla presidenza federale. I sondaggi danno la sua popolarità in caduta libera.

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 E’ l’entusiasmo dei giovani la caratteristica principale di Euro 2012 a Poznan. Per loro questa è un’occasione unica da non farsi scappare. Damian Zalewski ha un incarico di prestigio al Comune ed ha seguito nella sua città la preparazione del Campionato europeo passo dopo passo. Nulla, pare, è stato lasciato al caso. “Qui a Poznan: stadio, aeroporto, stazione…” Il manco trentenne Zalewski fa l’elenco dei siti ammodernati in questi ultimi anni grazie ad Euro 2012 con tanto di cifre alla mano. “11,7 miliardi di zloty”, dice in un ottimo inglese imparato grazie ai suoi studi universitari all’estero.
Quasi 3 miliardi di euro spesi benissimo. Rispetto all’ultima volta che venimmo in visita il capoluogo della regione della “Grande Polonia” appare più moderno ed efficiente pur essendo da lunghi decenni famoso per la sua fiera, che attrae imprenditori ed uomini d’affari (inclusi gli italiani) da ogni angolo del continente.
Ma “non abbiamo soltanto un’anima commerciale”, si affretta a sottolineare Pawel Sowa, guida turistica professionale. E come dargli torto? La piazza principale, lo Stary Rynek, è di una bellezza assoluta. Il palazzo del Municipio, splendida opera dell’architetto luganese Giovanni Battista Quadro nel 16esimo secolo, dona al complesso un incredibile slancio verso il cielo.
A Poznan, a solo due ore e mezza di autostrada da Berlino, è attesa un’invasione di italiani, soprattutto dalla Germania. “Perlomeno adesso con Euro 2012 qualche straniero in più – commenta ironicamente Sowa – saprà dove si trova Poznan”. Qualche volta è capitato che il centro della “Grande Polonia” sia stato confuso con la tedesca Potsdam, alle porte di Berlino, dove si tenne la famosa conferenza alla fine della Seconda guerra mondiale.
Di sera il Rynek si trasforma nel luogo di ritrovo sia dei giovani che delle generazioni più mature. Nei palazzi storici sono stati ricavati bar, pub, ristoranti. La birra scorre a fiumi come i drink a base di superalcolici, vodka in primis. Alcuni locali hanno anche una sala adibita a discoteca e con pochi euro si riesce a passare allegramente la serata.
A proposito di birra. Assolutamente da visitare è la vecchia fabbrica della birra trasformata oggi in uno dei più bei centri commerciali e culturali d’Europa per la sua esaltazione dell’arte d’avanguardia.
Sport, cultura, bell’ambiente – non dimenticando una cucina discreta a base di patate – sono gli ingredienti su cui Poznan ha investito il suo futuro turistico. Con questo entusiasmo dei giovani il successo è dietro l’angolo.

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